Le tre rose di Eva: fra sentimento e paradossi... e gradimento. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti
Qualche settimana fa ho scritto de Le tre rose di Eva la fiction di Canale 5. Il titolo
era "Finalmente una Fiction (effe maiuscola) italiana".
Ecco uno stralcio: "c'è qualcosa di diverso rispetto all'estetica, e ai modelli della
fiction corrente. Ho visto quella prima puntata, poi le altre. Ribadisco: qualcosa
di desueto per me, insomma un bel prodotto. ... Niente di nuovo in assoluto
naturalmente, tutto già visto e tutto assolutamente scaltro. Ma tutto riproposto in
una chiave ricca e spettacolare. I trucchi si vedono, ma li accogli volentieri. Per
cominciare il titolo, è notorio che il lemma "rosa" porta fortuna, è garanzia di
successo, sono decine i titoli in cui compare. A cominciare da "Il nome della rosa" di
Eco, in giù.
Dunque, Aurora, la protagonista torna a casa dopo aver scontato otto anni di
carcere per aver ucciso l'amante della madre. Un bambino capisce che è innocente:
non puoi costruire una storia su un'assassina accertata, seppure bellissima. Il primo
codice è dunque irresistibile, il tema del nostos (il ritorno) ci arriva da molto lontano,
da Ulisse, e poi dai reduci di Troia che hanno dato corpo alle opere dei grandi
tragici. Lo scenario: le colline della Toscana, i vigneti soleggiati, i borghi, antichi e
d'arte, arroccati sul monte, il tutto inquadrato con passaggi di elicottero. I modelli,
bellissimi. Gli uomini trasudano appeal, anche quello del villain, del cattivo, e sono
spesso a torso nudo. Le donne sono tutte pantere belle. Gonne che sembrano cinture,
camicie trasparenti eccetera. Dicono le loro battute e vengono inquadrate, a lungo,
mentre si allontanano, alla Marilyn in Niagara. Le scene di sesso sono "congrue"
alla fascia protetta. Diciamo che si fermano un attimo prima di oltrepassare... la
protezione. Poi c'è il solito capitolo interno alla famiglia: predilezioni, invidie,
contrasti, odi e amori e non puoi sbagliare, vai sul sicuro.
... Adesso occorre solo prepararsi alla fase discendente del racconto. Vedere se i treni
partiti, che sono davvero molti, arriveranno tutti in stazione, puntuali. La sensazione
che nel pacchetto forse sia stata compressa troppa roba. Vedremo".
Molto alto
Una premessa: la fiction sta ottenendo un gradimento molto alto. Dopo aver visto le
altre puntate ritengo di avere materiale sufficiente per una successiva analisi in varie
chiavi, a cominciare da quella drammaturgica. E non è un termine improprio riferito
alle "tre rose". L'obiezione potrebbe essere: sempre di fiction trattasi, con momenti
vicini al feuilleton. Roba normale insomma. Ma non è così. La serie presenta una
serie di paradossi narrativi che non sono davvero "normali". Un'altra premessa è
questa: produttori e autori sono riusciti a costruire una piattaforma capace di catturare
affezione profonda, e capace di farsi perdonare i paradossi di cui ho detto. Esistono
regole del racconto antiche e accreditate, codici radicati da... Omero e anche prima:
il protagonista-eroe, l'antagonista, le figure di contorno. La traiettoria narrativa ha
regole strutturali e naturali, che seguono la logica dei caratteri. Il cattivo può certo
diventare buono, ma attraverso una redenzione della quale già si devono intravedere i
segnali. Ne Le tre rose di Eva c'era un cattivo iniziale, anzi cattivissimo, Edorado
Monforte (Luca Capuano), il secondogenito, che davvero non presenta i segnali di
un'evoluzione verso il bene, eppure successivamente diventa l'eroe sorpassando
l'eroe precedente, cioè il fratello maggiore Alessandro che, nel movimento
ondulatorio, diventa il cattivo. Lo strumento è naturalmente la bellissima e
tormentata Aurora che passa dall'uno all'altro. Ma ecco una fase successiva dove i
primi caratteri sembrerebbero –uso il condizionale- riassestarsi. Edoardo torna
cattivissimo e Alessandro torna "quasi-buono". È solo un dei paradossi. Poi ci sono
gli inserti, i nodi narrativi. La serie riesce a passare da una scena di sesso, a una di
cucina, a un consiglio di amministrazione, a un omicidio, a un ambiente alla Vito
Corleone, alla guerra nel Medioriente. Salti inverosimili che gli autori riescono
comunque ad accreditare. Le regole della scrittura seriale sono di ferro: puoi
concederti una licenza fuori dal format, ma deve essere breve, devi rientrare subito.
Uno dei diplomi del Centro Sperimentale di Cinematografia di cui sono docente e
membro del Comitato scientifico, è proprio la sceneggiatura fiction. Ha regole ferree,
appunto. Devi trattenere la creatività a favore della ripetitività. Il fatto che ne Le tre rose di Eva la ripetitività venga sorpassata in maniera così perentoria e anarchica mi ha
fatto pensare che la macchina venisse azionata da un motore potente, che "dietro" ci
fosse della cultura. Giovedì 24 mi è arrivata una mail interessante. Firmata da Luigi Forlai, produttore de Le tre rose di Eva. Una lettera simpatica dalla quale estraggo, in
copia e incolla, uno stralcio: "La cosa che mi ha colpito nella recensione è stato che
alcuni degli elementi chiave che lei ha individuato nella serie (ad esempio il ritorno
a "casa" della protagonista o il look sexy delle protagoniste) sono stati proprio gli
elementi su cui abbiamo discusso in modo accanito nella progettazione e nella
preparazione della serie (ad esempio, a livello colloquiale ho sempre chiamato la
serie "Le contadinelle sexy")".
Così mi sono informato sul personaggio, scoprendo che ha scritto tre libri: "Archetipi
mitici e generi cinematografici", "Come raccontare una storia" e "Detective thriller e
noir", insieme ad Augusto Bruni. Dunque, la "drammaturgia", come l'ho chiamata
sopra, non era casuale, gettata lì come i dadi, ma studiata e risolta in paradossi
consapevoli. Che hanno funzionato, e come.
Costo
Qualche curiosità me la sono tolta. Mi è stato detto che il costo delle puntate è
basso. Ed è un'ottimizzazione importante. Una delle sequenze reiterate, suggestiva
ed efficace, e "ricca", è quel passaggio di elicottero sulle città e sui vigneti. La
sequenza è costata... un migliaio di euro, trattasi semplicemente –e forse non dovrei
rivelarlo- di repertorio. Niente di nuovo anche qui, naturalmente. Ma è ben fatto,
non te ne accorgi. Mi è stato detto anche dell'azione per rendere la protagonista
Anna Safroncik più dolce rispetto alla sua cifra naturale. Nelle prime puntate l'hanno
fatta piangere spesso. Non è dunque improprio dire che c'è anche qualcosa del
famoso "metodo". Non riscontro segnali di questo genere nella fiction nostrana.
La franchigia, l'affezione ottenuta da Le tre rose di Eva ha permesso alcuni episodi
estremi, imperdonabili in altri contesti. Viola la moglie di Alessandro, incinta, sa
che il marito ama Aurora ed è lei "il grande amore della mia vita e sarà sempre
così". Allora Viola afferra un coltello e se lo punta al ventre. Ribadisco una citazione
precedente: neppure a Matarazzo e Sirk, eroi del melodramma, avresti perdonato
una scena del genere. Ma ancora: tentano di uccidere Alessandro investendolo. Tutti
corrono in ospedale, moglie, amante, fratello. Passa un cadavere, coperto da un
lenzuolo, su una barella spinta da un'infermiera che domanda "siete parenti del signor
Monforte?... Non ce l'ha fatta, mi dispiace". Poco dopo, nella costernazione generale,
l'infermiera, senza barella, si rifà viva: "chiedo scusa, mi ero sbagliata, era un altro
cadavere". Non basta la franchigia, ci vuole un'immunità per farsi condonare questa
trovata. Eppure... il condono arriva.
Un'altra licenza non trascurabile sta nel ritmo narrativo della serie, talmente
veloce da aver rimosso le connessioni. Si passa da una vicenda all'altra senza il
momento di pausa, il cuscinetto, che permetterebbe all'utente di metabolizzare
l'episodio per prepararsi, sentimentalmente, psicologicamente, a entrare in quello
successivo. Non c'è il tempo per una catarsi parziale. Non è grave e non è esclusiva
di questa serie: la comunicazione attuale, il computer, il fantasy e l'horror violenti,
hanno assestato colpi molto duri a quella che ho chiamato catarsi, parziale o integrale
che sia.
Il produttore Forlai mi ha raccontato della grande dialettica con gli sceneggiatori sul
dialogo e sugli episodi. Accreditare un mélo così estremo senza cadere nel grottesco
non è facile. Le major americane hanno insegnato in questo senso.
In termini di licenze, e anche di paradossi mi piace rilevare un riferimento, di
qualità diversa certo, l'uso della scrittura da parte delle major. Dovendo adattare
un romanzo a un film, coi relativi difficili compromessi fra i contenuti "seri" della
carta e le esigenze leggere della pellicola, per esempio l'happy end che devastava
certi grandi romanzi dal naturale finale drammatico, le produzioni assumevano, per
le sceneggiature, autori nobili, maestri assoluti di genere, come Chandler, o premi
Nobel, come Faulkner. Gente che magari non conosceva i tempi e l'economia della
sceneggiatura, ma sapeva inserire momenti di qualità e di creatività superiore nel
racconto e nel dialogo. È la differenza, in campo, fra i centrocampisti che dettano il
gioco, e il fuoriclasse, il numero dieci che ci mette i dribbling e il gol. Così si salvava
l'opera e si salvava il film.
Ribadisco che la fiction di Canale 5 non ha mostrato invenzioni rispetto ai codici
accreditati, ma ha reso tutto più funzionale, a cominciare da una certa estetica
patinata delle soap. Ha tutto toccato e accorpato, ha riletto il già visto e scontato:
il thriller, il mélo, il morboso, il banale, il sentimentale, la commedia, la tragedia,
persino un tocco di gotico. Manca forse qualche momento di disimpegno, di ironia
e di sorriso, e un registro un po' più ricco di vocabolario, ma i Chandler e i Faulkner
non sono facilmente reperibili. Infine si può dire che la vicenda dei Monforte e di
Aurora Taviani potrebbe essere verosimile in California, in Provenza, nel Sussex, in
Andalusia o in Australia. In tutto questo c'è davvero poco di "fiction italiana" e mi
sembra un bel progresso.
Le tre rose di Eva è un programma che coinvolge e diverte, che fai fatica ad abbandonare.
Certo, ci sono troppe passioni, troppi ricchi e troppi belli. E certo non è il manifesto
del Paese in questa epoca. È più che naturale che una certa critica corrente sia
insospettita e infastidita: non ci trova né sociale né politica. In questo senso è proprio un prodotto scorretto. Ma è anche un deterrente, e ben venga,
ogni tanto. Perché la prima opzione della fiction è proprio quel deterrente.
Ritengo doveroso citare alcuni dei nomi fondamentali. Federica Caruso, l'altro
produttore. Raffaele Mertes il regista. E gli sceneggiatori Michele Abatantuono,
Maria Carmela Cicinnati e Luca Biglione. Gente che ha operato in produzioni di
vertice della fiction televisiva e del cinema.