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Romanzo di una strage, la lunga angoscia di Piazza Fontana

Il film di Giordana chiude le revisioni. Di Pino Farinotti
di Pino Farinotti

In foto Pierfrancesco Favino in una scena del film Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana.
Pierfrancesco Favino (54 anni) 24 agosto 1969, Roma (Italia) - Vergine. Interpreta Giuseppe Pinelli nel film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage.

lunedì 2 aprile 2012 - Focus

Il film di Marco Tullio Giordana, dopo 43 anni di abnorme dialettica, chiude, almeno per ora, la traiettoria della comunicazione, delle interpretazioni, delle riletture, della revisioni di quel 12 dicembre 1969. Potendo il cinema sorpassare la verità, che comunque non è mai stata trovata, ecco che possono essere attivate le legittime licenze del cinema. Naturalmente occorre procedere con prudenza, perché, anche se una verità documentata non esiste, esistono comunque milioni di documenti e i margini di invenzione devono essere disegnati con grande attenzione. Infatti il titolo del film non è “cronaca”, ma “romanzo” di una strage, come una sorta di excusatio, come se l’autore volesse mettersi al riparo. E così è la sua discrezionalità che vale. Marco Tullio Giordana, che è comunque autore “di grande attenzione”, supportato dalla scrittura sicura di Rulli e Petraglia, aveva dato buona prova di sé nella "Meglio gioventù" nella lettura sociale e politica dell’arco vitale dagli anni Sessanta all’oggi più o meno. Il regista è uno che sa rappresentare quei contenuti. Non è Stone, non è Monicelli e non è neppure Rosi, è un buon professionista che si è conquistato una credibilità. “Romanzo” come concetto significa dunque fiction, significa inserto di spettacolo e di thriller. Dunque le ipotesi, le idee, i sospetti, la fantasia vengono definiti dal commissario Calabresi, in un confronto col questore: la bomba non era una sola, erano due, e chi le ha messe? Le hanno messe tutti, anarchici, movimenti di estrema destra e sinistra, servizi segreti, pezzi di NATO e naturalmente la CIA, che va sempre bene. L’indicazione viene data come paradosso ma anche come non-paradosso. E così ancora una volta nessuna verità. Dunque neppure un film che può permettersi ipotesi e licenze, serve a qualcosa. Romanzo di una strage presenta un linguaggio televisivo, non ci sono invenzioni, non c’è ricerca di spettacolo. Per analogia (e anche per contrasto) mi piace citare l'Edgar di Eastwood. Anche Hoover era un’ombra scura e minacciosa –certo in modo diverso, voleva difendere seppure in modo anomalo, il suo Paese- a incombere sulla vita inconsapevole degli americani. Ma certo quello è un altro cinema, e Giordana non è neppure Eastwood. Soprattutto Eastwood fa diventare il suo film una vicenda per il mondo. Mentre il “Romanzo” rimarrà, lo dico adesso, un’espressione autoctona che il movimento generale del cinema, al momento delle selezioni dei grandi premi, ignorerà.

Attori
E poi i personaggi. Alcuni degli attori sono perfetti, li conosciamo, alludo a Mastandrea (Calabresi), Favino (Pinelli) Lo Cascio (giudice Paolillo), e altri. Però vorrei sollevare la questione “dialetto”. Credo che gli autori italiani debbano organizzare un convegno sull’argomento. E rivederlo. Nel film di Giordana molti personaggi parlano con pesanti cadenze, milanese, veneta. Sono inflessioni di maniera che sconfina nella caricatura. Pietro Valpreda sembra il milanese delle barzellette raccontate dai romani, così come sono penalizzati i “padovani” Freda e Ventura. Ma perché non far dire le battute in italiano? Eccesso di carattere è un pericolo sempre vigile nel film: il presidente della repubblica Saragat, il presidente del consiglio Rumor, il principe Borghese - il fascista del colpo di stato- soprattutto Aldo Moro, sempre inquadrato nell’ombra, con un filo di luce sul volto, risentono di questo eccesso. Certo che il film è benemerito, nettamente sopra la media della qualità italiana, e vale come sforzo onesto di un autore appassionato.

Cittadino
Ho scritto da tecnico, adesso cerco di interpretare il cittadino, l’”utente ignoto”. Il sentimento è generale, non c’entra il film di Giordana. Quelle vicende tragiche - Brescia, Bologna, Ustica, e altre- quei misteri mai risolti, sono evocati da decenni attraverso migliaia, anzi decine di migliaia di servizi: le testate cartacee, gli speciali dei telegiornali, gli approfondimenti, e poi i Ballarò, i Servizi pubblici, le Piazze pulite. I libri naturalmente. Un esercizio, una comunicazione che sono stabilmente, profondamente, insediati nella memoria italiana, che hanno portato un contributo di angoscia costante, con quella violenza, con quel non arrivare mai a sapere, soprattutto con quell’avviso di minaccia continua: viviamo in un Paese del quale non sai niente, dove ci sono caste cattive, invisibili e imbattibili che complottano contro di te. L’utente ignoto si rifà a un altro poveraccio manovrato in silenzio, il soldato di Brecht, ferito in ogni parte del corpo, da ogni tipo di arma, per tanto tempo, che non può neppure morire perché deve essere tenuto in vita per altre violenze e sofferenze. E si rifà, l’utente, a quello straordinario personaggio del film Quinto potere, Howard Beal (Peter Finch, premio Oscar) il giornalista ispirato, forse impazzito che, in televisione si ribellava, oppresso “incazzato nero”: “…almeno lasciateci tranquilli nei nostri salotti, lasciatemi il mio tostapane, la mia vecchia bicicletta, e io non dirò niente, ma lasciatemi tranquillo…”. Come Howard, il cittadino direbbe “lasciate che l’angoscia sia almeno inconscia, non ricordatemela tutti i giorni. Ho tutto ben presente.” L’utente ha visto in questi giorni il trailer di un film in arrivo, Diaz. Negli anni, su quel G8 di Genova del 2001, davvero non sono mancate informazioni. É una ferita profonda: analisi, polemiche, scandalo, servizi a migliaia, rabbia, ideologia e politica, crociata di una parte politica. C’è stato anche un documentario, Carlo Giuliani, ragazzo, di Francesca Comencini. La frase di lancio di Diaz è questa: "Quella notte, per novantatre persone inizia un incubo. La più grande soppressione del diritto democratico in un paese occidentale, dopo la seconda guerra mondiale".
Un pronunciamento spettacolare, certo pesante, forse neppure vero. Ma certo è un altro vettore di angoscia per il poveretto ignoto, che di un altro film, forse, non sentiva il bisogno.
“Ma perché” domanda il cittadino ai cineasti italiani “non fate film come The Artist, Quasi amici, Le Havre”, roba di qualità che non ti fa paura?” L’obiezione potrebbe essere: ma che fai soldatino, nascondi la testa sotto la sabbia, ti copri gli occhi con una benda? Non esiste quella sabbia e non esiste quella banda. Che ci sia solo un po’ di silenzio, un po’ di tranquillità, senza notizie, senza angosce, senza consapevolezza. Almeno per un po’… un intervallo.

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