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Bellocchio, il Leone ruggisce ancora

Tra provocazioni e ricordi del passato, il regista di Bobbio prepara il suo ritorno.
di Ilaria Ravarino

In foto Marco Bellocchio, premiato con il Leone d'oro alla carriera alla 68. Mostra del cinema di Venezia.
Marco Bellocchio (84 anni) 9 novembre 1939, Bobbio (Italia) - Scorpione.

venerdì 9 settembre 2011 - Incontri

Marco Müller lo definisce «un pagamento in anticipo» e cita Tim Burton, David Lynch, Hayao Miyazaki. Il Leone alla carriera a Marco Bellocchio, che stasera dopo aver ricevuto il premio presenterà una versione rinnovata e tagliata de Nel nome del padre, non deve suonare come un contentino, o peggio ancora come un pensionamento. Ma la domanda è nell’aria, e il Maestro lo sa benissimo. Gioca a fare il moderato in conferenza stampa, Bellocchio, ma non vede l’ora di tornare nell’agone. Provoca, lancia strali, si concede a una dolce malinconia senza rabbia nel ricordare i nemici del passato, le invidie, le rivalità degli anni caldi della sua giovinezza. E a tutti ricorda, quasi per caso, che sta tornando. Con un nuovo film, e tanti altri in un futuro «che spero lungo». Come lui anche Bertolucci si prepara a tornare. Il cinema italiano riabbraccia i suoi padri. A quanto pare, nessuno ha intenzione di ucciderli.

Che ricordo ha degli anni turbolenti della Mostra di Venezia? Nel nome del padre fu uno dei simboli della ribellione di quell’epoca.
Di quei decenni non è rimasto nulla. In quegli anni la politica aveva un peso diverso.... essere di sinistra allora significava parlare in un modo molto corretto rispetto all’ideologia. Non mi sembra, però, che il presente abbia tradito il passato. Il punto è che non è possibile nemmeno fare paragoni. Al tempo c’era un’Anac estremamente combattiva, schierata su posizioni vicine al Pc, e una Mostra di Venezia diretta da Gian Luigi Rondi che si contrapponeva: c’era un Festival e un Antifestival. Io ero nell’Anac, e a un certo punto si capì che si poteva presentare Nel nome del padre all’Antifestival, nonostante forse qualcun altro lo avrebbe voluto al festival ufficiale. Erano tempi complicati, non privi di contraddizioni: un grande come Carmelo Bene se ne andò al festival di Rondi, per esempio.

Che effetto le fa ricevere un Leone alla carriera?
Sarei un pazzo, un imbecille e un ingrato a non essere contento del Leone. Mi sembra il riconoscimento a una carriera in cui ho cercato sempre di esser fedele alle mie idee e alle mie immagini, e questo pur cambiando... io rivendico il mio cambiamento: non sono lo stesso che ha fatto Nel nome del padre. Io credo che la gente possa cambiare.

Cioè non è più di sinistra? E ancora: non trova che il Leone alla carriera abbia il sapore di un pensionamento?
Sono cambiato anche nel senso che sono diventato tollerante, infatti in passato l’avrei mandata a quel paese per queste domande. Certo, voto a sinistra, non sono un berlusconiano, ma anche lei sa benissimo che esserlo oggi è diverso che esserlo allora. Perché poi parla di pensione? Ovviamente lavoro ancora, ho dei progetti. Non è nel numero di film, ma nella qualità, che si giudica lo stato di pensionamento di un autore. Spero di fare ancora buoni film, e questo Leone potrebbe essere una ripartenza per il mio futuro, che spero sia lungo.

Bernardo Bertolucci le consegnerà il Leone: cosa avete in comune?
Con Bernardo più che altro ci sono state tante differenze. Siamo finiti a Roma quasi contemporaneamente, lui vide anche un mio corto di diploma al Centro Sperimentale, avevamo amici in comune come Moravia e Pasolini, e insomma condividevamo tutto quel mondo che permise a me, che venivo dalla provincia, di ambientarmi a Roma. La sua sensibilità e le sue immagini sono diverse dalle mie anche se siamo partiti negli stessi anni e siamo quasi coetanei. Solo adesso, nonostante lui abbia viaggiato nel mondo e io sia rimasto in Italia, lo sento misteriosamente vicino. Mi sento ancora un non riconciliato, ma ho verso la rabbia una certa diffidenza. E nei suoi confronti sento una vicinanza di affetti, forse anche perché entrambi stiamo per riprendere a lavorare. Negli anni ’70 ci fu tra noi della rivalità e persino dell’invidia: lui aveva dei grandi successi all’estero e io no, io feci con grandissime difficoltà Nel nome del padre e lui usciva con Ultimo tango, un film che esplose nel mondo. Col tempo però credo che ci siamo ritrovati, e il fatto che sia lui a darmi il premio, più che onorarmi, mi emoziona. E mi commuove.

Ritiene questo Leone un risarcimento per i tanti premi mancati?
Mi sembra un atto di riconoscenza, non di risarcimento. Il risarcimento è un concetto che implica il risentimento, che non provo. I miei film sono andati per conto loro, i premi non hanno importanza. Per quanto non mi ponga come un rivoluzionario, il potere e l’istituzione non piacciono. Ed è logico che l’istituzione mi ripaghi con la stessa moneta. È una questione di coerenza. Sarebbe come se un rivoluzionario pretendesse il plauso del tiranno.

Cosa consiglierebbe a un ragazzo giovane che vuole fare il regista?
Ecco una domanda impossibile. Lo scoraggerei. Questo è un lavoro molto faticoso in cui pochi riescono, tanti si arrabattano, e tra loro anche ragazzi di talento. Se poi lui, anche dopo queste parole, volesse continuare... direi che questo fatto che oggi si possa lavorare con poco è un gran vantaggio. Quando nel ’65 feci I pugni in tasca si lavorava col ferro, in modo meccanico, si usava roba pesante, mentre ora si lavora con oggetti sempre più piccoli e vicini allo sguardo umano. La cosa che trovo sbagliata, semmai, è che alcun giovani in questa povertà cerchino di imitare i padri. Bisogna cercare la propria strada con i mezzi che si hanno: non dico di uccidere i padri, ma almeno di separarsi da loro. Tutti si buttano oggi sulla commedia, ma ci si buttano miseramente. Così si faranno sempre commedie più brutte di quelle dei grandi come Monicelli.

Ha scelto lei di proiettare alla Mostra stasera Nel nome del padre? Quali differenze con l’originale?
Chi lo vedrà stasera lo vedrà per la prima volta. L’ho proposta io la proiezione, perché sentivo che il film poteva essere ancora rielaborato. C’erano delle lunghezze, delle cose ideologicamente un po’ soffocanti, il ritmo poteva essere più coinvolgente. Abbiamo fatto molti tagli, piccoli e grandi: nel teatro c’erano tre atti interminabili, ora c’è un atto e mezzo. Ma il senso del film è lo stesso, non c’è né un addolcimento né un ammorbidimento. Nella sua disperata ribellione, il film è rimasto così. Solo che credo che sia diventato più bello, tutto qua.

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