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Ascanio Celestini, a lezione con la pecora nera

L'attore romano costruisce al Giffoni un monologo intenso sulla vita.
di Ilaria Ravarino

In foto l'attore comico Ascanio Celestini.
Ascanio Celestini (51 anni) 1 giugno 1972, Roma (Italia) - Gemelli.

mercoledì 20 luglio 2011 - Incontri

Non c'è verso, Ascanio Celestini alle domande non risponde direttamente. Ci gira intorno, si avvita, evoca, divaga, torna indietro e intanto usa i concetti come mattoni, costruendo e demolendo mondi. Ospite del Giffoni Film Festival, dove otto anni fa venne per un recital di letture, il piccolo grande attore romano, che il prossimo giugno saluterà i suoi primi quarant'anni, ha tenuto ai ragazzi della giuria una masterclass che, più che una lezione di cinema, è stata un monologo intenso sulla vita, sull'arte e sulla politica. Gli occhi chiarissimi puntati sulla platea, una mano a tormentare la barba appuntita, Celestini ha parlato da attore, da autore, da regista di cinema e di teatro, da personaggio radiofonico e televisivo, un fiume in piena che ha travolto e coinvolto i suoi spettatori. Incredibilmente aereo quando cerca le parole per spiegare un concetto, inizia a parlare in astratto e prende l'argomento da lontano, per poi ripiombarci in picchiata con la forza della realtà. Fa esempi concreti, di quelli che piacciono ai ragazzi: spiega il cinema e parla di sedie, racconta il linguaggio della tv paragonandolo a una macedonia, a ogni parola corrisponde puntuale un'immagine del quotidiano. È un comunicatore nato e un artista di successo, sebbene dotato di grande umiltà: parafrasando il titolo del suo primo (e unico, dice lui) film, è una pecora nera nel piccolo pascolo dello showbiz all'italiana.

Che spazio ha il cinema indipendente nel mercato italiano?
Il cinema, a prescindere dal fatto che colga o meno lo spirito del suo tempo, funziona per immagini evocate. L'arte è fondata su questo: le immagini. La parola è un oggetto, un tramite. Tutto il cinema funziona così. C'è un cinema che si accontenta di mostrarti una sedia, perché è più facile e sai già che è una sedia, poi la condisce con una fotografia cui sei abituato, perché è più comodo così, che fonda insomma la comunicazione sul riconoscere sempre le stesse cose: da noi questo cinema ultimamente corrisponde alla commedia. E poi c'è un altro cinema, che funziona con meccanismi diversi, ti mostra la sedia ma è come se la vedessi per la prima volta, perché il linguaggio che usa è diverso: penso a film come La bocca del lupo o La pivellina, che ovviamente hanno meno successo, hanno spazio ma piacciono di meno. Perché non sono immediatamente riconoscibili.

Sta pensando a un altro film da regista?
La pecora nera l'ho scritto nel 2008 perché nel 2002 avevo fatto un lavoro di ricerca nei manicomi, poi da quello era venuto lo spettacolo, e il libro, la radio... al film ci sono arrivato piano piano. Mi divertirei come un bambino a farne un altro, ma adesso non saprei su cosa concentrarmi.

Ha mai pensato di portare al cinema il suo spettacolo Appunti per un film sulla lotta di classe?
Nel 2006 ho portato in scena quello spettacolo dopo aver cominciato a interessarmi di un certo call center, una struttura con 5000 lavoratori e un collettivo auto-organizzato: una rarità, se si considera che quelli sono luoghi di lavoro dove latitano sia i partiti che i sindacati. Insomma, sono posti dove lavora tanta gente ma i gruppi di potere non hanno alcun interesse a entrarci: il paese si comanda controllando fabbriche e ministeri, non i call center. Ho fatto molte interviste ai lavoratori, e mi pareva che le loro storie non fossero così diverse da quelle che avevo ascoltato nei manicomi. Una donna, per esempio, mi disse: «Quando muore tuo padre tu vai al lavoro, perché quando ti chiudi alle spalle la porta con la maniglia antipanico chiudi fuori anche il panico». Esattamente come nei manicomi, dove vige la regola di lasciar fuori dal manicomio i problemi del mondo, e fuori dal mondo i problemi del manicomio. Tutti questi appunti erano per un film, e infatti il secondo passo fu un documentario, Parole sante, che portai al Festival del Cinema di Roma. Poi ho abbandonato tutto per scrivere un romanzo. Non ho mai pensato di farne un film, ma me l'hanno chiesto. Da una parte mi sembra di aver già detto tutto sull'argomento con altri mezzi, dall'altra forse ci devo ancora arrivare. Farne un film potrebbe tornare utile nell'ottica del meccanismo industriale, ma non so se sono capace di entrarci. Poi magari invece lo farò. Non so.

Qual è il suo rapporto con la tv?
La tv funziona in maniera molto semplice: è un mezzo determinato dagli inserzionisti e dalla politica. Quando le cose funzionano così, è difficile scrivere testi pensando che esista anche solo un linguaggio televisivo. E così la fruizione, che è lo zapping: noi non vediamo un programma, noi vediamo la televisione. Per noi la televisione è un imbuto dove cadono cose diverse, che poi là dentro diventano uguali. Un ballerino della De Filippi e un attore di Bergman diventano la stessa cosa nello stesso frullatore. È come in una macedonia: distingui la pera dalla mela, ma la frutta è tutta insieme e i sapori si confondono. Difficile mantenere una propria cifra, uno stile. Io farei volentieri più tv di quella che faccio, ma riesco ad andare solo in quei programmi dove mi sembra di saper far qualcosa. E in alcuni posti, come i talkshow, non ci vado anche perché farei una figuraccia.

Tornerà nel programma di Serena Dandini?
Non so niente della prossima stagione. Ho incontrato il suo regista, mi ha detto: «Che ci inventiamo»? Non ho altre informazioni rispetto a quelle che leggo sui giornali. So che ci sono delle difficoltà.

Qual è il mezzo perfetto per comunicare artisticamente?
Meno girano i soldi, più autonomia hai e meno persone determinano quel che devi fare. Che poi anche in tv non ci sono mai persone che ti dicono esattamente che una cosa è giusta e l'altra da censurare. Cioè, te lo dicono pure. Ma la faccenda ricorda un po' quelle situazioni in cui magari uno va in ufficio, ed è l'unico a non avere la cravatta. Nessuno gli dice di mettersela, però quello si chiede perché mai dovrebbe fare "lo strano". E allora il giorno dopo se la mette, magari ne sceglie una con Topolino e Paperino, ma intanto la cravatta l'ha indossata...ecco. In tv può darsi che non ti taglino l'intervento, ma magari capita che non vada in onda subito. O che lo montino in maniera diversa, e chi lo fa forse lo fa solo perché non vuole cercare la polemica... e allora ti dici che sarebbe stato meglio proprio non farlo, quel pezzo, che poi ti tocca difenderti, e passi giorni a difenderti quando invece vorresti occuparti di tutt'altro. Discutere è molto faticoso.

Qual è il suo giudizio sul pubblico dei giovani?
La categoria dei giovani non esiste. In questo paese siamo giovani a 45 anni, e a me scoccia che si parli a mio nome. Non ci sono "i giovani", ci sono gruppi di persone e movimenti, spesso con età diverse. In Val di Susa per esempio ci sono i giovani dei centri sociali insieme all'anziano professore in pensione, e quel gruppo apparentemente disomogeneo comunica e scambia. I giovani tutti uguali, che dicono le stesse cose, con lo stesso gergo, nello stesso posto, mi fanno paura. Sono come soldati lobotomizzati che parlano per slogan. Non pensano, tifano.

Le hanno mai chiesto di entrare in un partito?
Si. Ma per me la politica è una cosa più ampia che entrare in un partito. I partiti ti chiedono tante cose, di fare campagna o di partecipare a una festa, ma io ho cominciato ad andarci sempre di meno perché mi è capitato di finire in contenitori che hanno perso il loro significato iniziale. Alla Festa dell'Unità di Roma, per esempio, non vado. A quella di Bagnacavallo sì. Spero di non cadere mai nella tentazione di candidarmi. E pensare che i partiti sono frutto di un lavoro straordinario fatto nell'800 da gente come Mazzini, Garibaldi, Cavour. Oggi il popolo non governa più e delega, mentre i poteri forti sono fuori dai partiti, sono lobby e multinazionali. Credo tuttavia che il nostro paese si stia lentamente dirigendo verso una nuova direzione. Le rivoluzioni interessanti del resto durano tanto tempo, mentre quelle improvvise creano solo un gran casino.

Che ne pensa dei comici capipopolo alla Grillo?
Grillo dice quel che pensa, e come i politici dei partiti è diventato un personaggio. La maggior parte delle persone non lo conosce direttamente, ma solo attraverso la rete e la tv. Detto ciò, io non credo che sia questo il pericolo, ma semmai quello di una mancanza di ideologia e di prospettive. Dobbiamo cercare di viaggiare verso un mondo migliore, e invece finiamo per parlare spesso senza nemmeno avere una visione del mondo. Parliamo solo per tappare dei buchi Questo è ciò che mi fa paura.

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