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I fratelli Dardenne maestri del cinema a Fiesole

Il celebre premio del SNCCI tributato ai fratelli belgi.
di Edoardo Becattini

In foto i registi belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne a Fiesole (Toscana). Foto di Alessandro Becattini.

lunedì 11 luglio 2011 - Incontri

Da quindici anni, non c'è festival a cui si presentino dove non ricevano un premio o una menzione speciale. Eppure per Luc e Jean-Pierre Dardenne, premiati venerdì sera in Toscana con il Premio Fiesole ai Maestri del Cinema, il termine "maestro" suona "impressionante, quasi pericoloso". I loro film li considerano soprattutto un laboratorio, un'officina per mettere alla prova piccoli racconti e grandi personaggi, e anche presenziare a Cannes, dove pure hanno vinto a ogni mossa (due volte la Palma d'Oro con Rosetta e L'enfant, un premio per l'interpretazione di Olivier Gourmet in Il figlio, uno per la sceneggiatura de Il matrimonio di Lorna, più il recente Grand Prix all'ultima edizione con Il ragazzo con la bicicletta), gli suscita ancora "brividi e forti emozioni". È così che i due fratelli belgi hanno accolto il premio tributato dal sindacato dei critici cinematografici italiani SNCCI: con la stessa estrema semplicità e l'incredibile profondità dei loro film.

In una serata dove si celebrano due fratelli che sulle tematiche degli affetti e degli squilibri familiari costruiscono la solida identità del cinema d'autore europeo, il Premio Fiesole è stato consegnato quest'anno da due sorelle, anch'esse neo-premiate per il loro lavoro nel cinema contemporaneo ai recenti Nastri d'Argento. Alba e Alice Rohrwacher, silenziose e timide madrine della serata, hanno accompagnato l'investitura dei due "maestri" belgi e l'incontro con il pubblico che si è svolto subito prima. Di quello che è stato detto all'interno della giornata che gli è stata dedicata dalla piccola cittadina situata sui colli fiorentini, c'è molto della lezione di cinema, ma resta soprattutto l'immediatezza e la forza delle parole di due cineasti con un fortissimo senso civile.

Dai Lumière ai Coen, passando i Taviani e i Frazzi in Italia. Come si realizza un film d'autore con due teste pensanti?

Jean-Pierre Dardenne: Non credo che ci sia nessun segreto nel nostro modo di lavorare in coppia. Alla base c'è la presenza di un uomo di teatro, Armand Gatti, con cui abbiamo lavorato assieme per anni e che rappresenta la nostra formazione, il nostro territorio artistico comune. Quando Armand ha smesso di lavorare, avevamo maturato una certa esperienza con il video e le macchine da presa, per cui ci siamo semplicemente detti perché non andare avanti assieme. È cominciato così, provando a realizzare dei documentari, dei piccoli ritratti. Eravamo in due a fare tutto: a occuparci del suono, della macchina da presa, delle luci e a poco a poco abbiamo imparato più o meno tutto, sempre assieme. Tutto questo è successo circa trent'anni fa. Oggi facciamo più fatica a parlare del nostro lavoro. Di sicuro parliamo molto, discutiamo assieme e ci facciamo venire delle idee. Partiamo da un personaggio o da una situazione che ci interessa, che leggiamo o che ci raccontano altre persone. Per esempio, la storia de Il ragazzo con la bicicletta nasce da una storia che ci è stata raccontata in Giappone di un padre che ha lasciato il proprio figlio in un centro di educazione promettendogli di tornare presto ma che poi non è più tornato a prenderlo.

Luc Dardenne: È vero, si parla molto. Si cerca di trovare assieme una struttura comune, poi io scrivo una prima stesura della sceneggiatura e ne parlo per telefono con lui. Lui reagisce, ne discutiamo assieme e facciamo delle revisioni. Così avanti, finché non arriviamo a circa la decima stesura, che di solito è la sceneggiatura definitiva. Poi assieme prendiamo contatti con produttori e finanziatori, facciamo assieme i casting con una videocamera e parliamo con scenografi e costumisti su come debba essere strutturato lo spazio. Filmiamo sempre tutto con le nostre videocamere, muovendoci noi negli scenari definitivi al posto degli attori per provare le scene. Poi, una volta scelti gli attori, facciamo molte prove anche con loro. Nei fine settimana riguardiamo quel che abbiamo fatto per pensare altre soluzioni e scelte. Poi, senza il resto dell'équipe, proviamo le scene per qualche ora solo con gli attori per trovare quelle soluzioni di interpretazione che ci sembrano più soddisfacenti. Durante la fase delle riprese uno di noi sta con la squadra di regia e l'altro dietro al monitor, non in maniera fissa. È l'unico momento in cui lavoriamo separatamente, prima di ritrovarci assieme per il montaggio e il mixaggio.

Quali esperienze avete maturato per la poetica del vostro cinema lavorando col documentario?

Luc: I nostri primi film erano ritratti degli immigrati dell'Est Europa, soprattutto ungheresi o jugoslavi, che negli anni in cui abbiamo cominciato venivano in massa per fare gli operai in Belgio. Il nostro lavoro era molto semplice: andavamo nelle periferie delle città dove vivevano molti operai, ci presentavamo alla porta e chiedevamo di fare delle interviste, di filmare dei ritratti, facendoli parlare di fronte al video delle loro lotte personali, dalla famiglia alla scuola, ecc. La gente accettava, quasi mai si è rifiutata, e questo ci ha permesso di far aprire queste persone dalle loro condizioni di isolamento. Mostravamo questi lavori nelle varie case del popolo o nelle aule parrocchiali e ciò gli permetteva di sviluppare anche dei legami sociali fra loro. Purtroppo quasi tutti questi video sono scomparsi perché il materiale non è resistito al tempo. È un peccato perché si tratta di un lavoro finanziato con fondi pubblici dal ministero della cultura belga, che ci ha permesso di fare questo lavoro con continuità tutti i giorni per tre anni di seguito. Il ministero aveva dato fiducia al nostro progetto, sapendo che promuovere questo tipo di iniziative serve a creare un cittadino responsabile e critico.

Jean-Pierre: Molti dei nostri personaggi di finzione nascono dagli incontri di quegli anni. Credo che il documentario ci abbia insegnato che la cinepresa non si può mettere ovunque, che ci sono delle zone d'ombra che non possono essere riprese. Nei film di finzione, come nel documentario, è importante porsi delle costrizioni, dei limiti. Per noi il film migliore è quello che si pone più ostacoli e impedimenti nella sua realizzazione.

In Italia si parla molto di disaffezione del pubblico ai film e al luogo cinema. Come vivete questo momento?

Luc: Il pubblico di cinema è sempre cambiato. È la storia del cinema che ci racconta che il cinema cambia: dal baraccone e dalle fiere fino ai caffè, i bar, e ancora avanti fino alle sale e ai teatri. Poi ci sono state le star e oggi abbiamo gli effetti speciali. Questa è la vita, il cinema è arte e in quanto tale deve muoversi per continuare a portare la gente a vedere i film. Non c'è da avere nostalgia, quanto da chiedersi cosa dobbiamo fare come cineasti. Dobbiamo lottare. Penso che noi, e non mi riferisco solo ai registi ma anche ai distributori, ci dobbiamo battere affinché il pubblico vada al cinema e continui ad andare al cinema. Certo, il cinema degli Stati Uniti ha un pubblico esageratamente più ampio rispetto al cinema cosiddetto "d'autore". Ma è importante che si mantenga una pluralità e che si promuova la cultura e il piacere del cinema. Alla cineteca belga organizziamo proiezioni per i bambini e li vediamo divertirsi moltissimo con Chaplin e con Laurel e Hardy. In questo senso, lo stato ha un ruolo fondamentale, perché è ovvio che la promozione culturale è una questione di soldi e che il governo debba sostenere con molti soldi il cinema d'autore, oltre ai film di più ampio consumo. Noi in Belgio, grazie a dei finanziamenti di stato, stiamo aprendo una serie di sale d'essai: non vogliamo cambiare il fatto che il pubblico vada a vedere Harry Potter o X-Men, ma aprire l'orizzonte delle possibilità. E vedrete che anche nei nostri cinema la gente verrà.

Oltre ai rapporti fra padri e figli, una delle costanti dei vostri film è l'idea di movimento.

Jean-Pierre: È vero, i nostri personaggi si muovono continuamente: in motorino, in bici, a corsa. È un modo per dimostrare di essere in vita. È anche un modo per rendere lo stesso movimento che avviene nelle loro teste. Per esempio, in Il ragazzo con la bicicletta le corse in bici sono un modo per Cyril di capire che il padre non lo vuole, ma che c'è una nuova madre per lui che lo sta aspettando.

Luc: Sì, è un movimento che spaventa perché è forte quanto l'amore. Cyril, come Rosetta, è un personaggio molto giovane, con un sogno fortissimo. Questi ragazzi non sanno dove andare o dove stanno andando ma sanno di doversi muovere per capire quello che manca a loro stessi: l'amore di un figlio, l'amore di una madre, l'amore di un bambino, ecc.

Jean-Pierre: Ci teniamo troppo ai nostri personaggi, così tanto che alla fine non riusciamo mai davvero a farli morire. Ogni volta lo proponiamo, ma poi non ce la sentiamo. È importante lasciare sempre una piccola possibilità di cambiamento ai personaggi, di scappare al loro destino. Nella società attuale è il destino sociale che preme più di quello personale nella vita della gente: è questo il tipo di visione che volevamo suggerire con La promessa o Rosetta.

Dopo tanti premi a Cannes, adesso per i critici italiani siete ufficialmente dei "maestri".

Jean-Pierre: "Maestro" è una parola impressionante, quasi pericolosa. Per nostra fortuna, essendo in due, è difficile dire chi sia più maestro dell'altro e, con questa scusa, possiamo continuare a non sentirci tali. A parte tutto, è un grande onore, anche per tutti i grandi cineasti che ci hanno preceduto nel ricevere questo premio. Un grazie soprattutto per l'importanza che questo premio cerca di dare alla cultura nella città. È importante che le istituzioni lavorino per creare un buon rapporto una città e la formazione culturale. Tagliare la testa alla cultura significa aprire la porta alla barbarie.

Luc: Siamo molto sensibili alla necessità di fare un lavoro culturale all'interno di un paese, una città, una nazione, un continente. L'Italia ha una grossa responsabilità in questo senso, per via del grande patrimonio culturale che porta con sé.

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