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Landis in Milano

Pino Farinotti incontra il regista di Ladri di cadaveri - Burke & Hare.
di Pino Farinotti


venerdì 25 febbraio 2011 - Focus

John Landis è, quasi esattamente, la mia generazione. Gli dobbiamo molto, è stato un inventore quando non era facile leggere il tempo e i generi. È nato a Chicago, la città di Wrigth, di Hemingway e di Disney legislatori di arti, e patria acquisita, se non culla, del blues e del jazz. Anche se la famiglia Landis arriva a Los Angeles che John è bambino, quella cultura dell'Illinois continuerà a prevalere. La combinazione midwest e west, può diventare una magnifica chimica, per chi intende fare cinema. Ai canonici rituali di chi farà successo a Hollywood non sfugge neppure John. Le biografie registrano: portalettere alla Fox. Contatti con gente abbastanza importante, poi molto importante. Incontro casuale decisivo, e il caso è generoso perché di Hitchcock trattasi. E poi frequentazione dei set per imparare i trucchi. Quindi la possibilità di metterli in pratica, quei trucchi. Qualche esperimento corto, uno lungo e poi l'incontro del destino, con John Belushi. I due si scoprono omologhi l'uno dell'altro dalle parti opposte della macchina. La chimica è esplosiva, come esplosivo sarà, letteralmente, I blues Brothers. Senza sottovalutare l'altro "blues" Dan Aykroyd, che è anche co-autore, insieme al regista, della sceneggiatura. E da lì l'umorismo scapperà da tutte le parti, sempre aggressivo ma capace di arrestarsi al momento opportuno, sempre urlato ma pronto a rientrare nei decibel per poi riesplodere. Sembra un termine scontato, reiterato, ma "demenziale" significa molto nella comicità e uno dei massimi profeti è Landis. Manovrando Belushi come in un videogioco, coi Blues Brothers diventa un inventore. L'invenzione si chiama "crash-movie" (quanti seguaci) con inserti di musica travolgente e registro recitativo col linguaggio del corpo, il cosiddetto slapstick.
La leggenda è servita.

Faccia
Landis, ha proprio la faccia dei suoi film. Il sorriso irridente ma educato di chi si è visto riconoscere il grande talento. Con in mano il dizionario Farinotti, ringrazia MYmovies per il sostegno, mi domanda se ho trattato bene i suoi film. "Benissimo" gli rispondo. Quando gli dicono che Farinotti è anche un riconosciuto "novelist" allora mi chiede se ho mai letto i suoi libri. "No, perché non ne hai mai scritti". Allora ride, come quando gli dico la didascalia che apre il suo Ladri di cadaveri: "Questa storia è ispirata a fatti reali, tranne quelli che non lo sono", continua a ridere. Infatti John è uno dei pochi autori che possono permettersi questa licenza, questo ammiccamento al pubblico. Si è conquistato la fiducia da molto tempo. Sicura e perenne. Quando guarda la copertina del dizionario, Avatar, non sembra del tutto contento. "Tante idee di altri, Orwell, Tarzan, Balla coi lupi, rappresentate con fantasia e grande tecnica. E poi il 3D aiuta, molto". La memoria popolare del cinema, che è esigente, attribuisce al grande regista di Chicago almeno tre titoli, Animal House, The Blues Brothers e Una poltrona per due. Le due icone nerovestite, con occhialini e cappelli, sempre neri, non sono un'istantanea del cinema, sono una grafica del Novecento. Qualcosa che trascende il cinema per diventare arte generale. Ed è davvero di pochissimi registi. È di un Fellini con la sua Anita nella fontana, o di un Bergman con la morte che gioca a scacchi. Estetica che fa parte di noi, cultura che ci accompagna, acquisita. Quando dico a Landis la faccenda dell'arte generale, sempre sorridendo certo, mi dice "mi sembri mia madre." Ma sui Blues Brothers dà una lettura profonda, perfetta (per forza). "Devo ringraziare mia moglie, è lei che mi ha suggerito quegli accorgimenti estetici. I cappelli, gli occhiali, i profili: devono essere semplici e visibili, riconoscibili all'istante, anche da lontano, anche nel buio. Come si riconosceva il bastone di Charlot, o Laurel e Hardy, uno magro e uno grasso. I "Blues" sono stati fortunati." C'è una domanda banale ma indispensabile ed è "quale dei tuoi film preferisci e quale, uno solo, in assoluto". "Domanda banale" mi dice "ma visto che sei uno specialista ti do mezza risposta. Dei miei il preferito è l'ultimo, dunque Burke & Hare. Ci ho messo dentro tutto ciò che ho imparato prima. In assoluto ti dico che non è uno ma centocinquanta. Nessuno ha un solo film del cuore." "Io ce l'ho" dico " è Shane (titolo italiano Il cavaliere della valle solitaria)". Allora annuisce John. "Film bellissimo, 'come back Shane, come back Shane!'. E mi spiega cose che già sapevo, ma dette da lui, non le sapevo: il regista Stevens, un genio, usò per la prima volta tre macchine in contemporanea, piazzate nei posti giusti naturalmente, e poi montava a sequenze di uno o due secondi, è stato un precursore." Sul suo Burke&Hare il regista va controcorrente. I due assassini scozzesi, storia vera, che uccidevano per fornire cadaveri alle università non è un geniale thriller-horror grottesco e comico secondo l'attitudine dell'autore, ma una triste storia d'amore. Uno degli assassini uccide per amore di un'attrice. Vuole finanziarla, che abbia successo. E prima di essere impiccato, come ultimo desiderio chiede una notte con l'amata. Muore felice. Lo dice John Landis, lui lo sa.

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