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Il grande cinema non c'è più. E che sia il pubblico a educare i critici

La qualità di un tempo è lontana.
di Pino Farinotti


lunedì 29 novembre 2010 - Focus

Sul Corriere della sera, un critico di grande autorevolezza, soprattutto di grande competenza, riferendosi alla rassegna su John Huston a Torino ha scritto:

"... mostrare quei film si rischia l'effetto shock (per la troppa bellezza) e soprattutto un ingeneroso confronto con l'oggi. Non è questione di nostalgie o rimpianti. Se si tolgono i passi da gigante fatti dalle tecnologie digitali e dagli effetti speciali, cosa resta del cinema di adesso che va per la maggiore? Decisamente poco..."
"...C'era Hemingway dietro i suoi film, e poi Melville, Tennessee Williams e Lowry, e addirittura Joyce, ma soprattutto c'era la voglia di pensare in grande, di scegliere esempi alti e non minimi."

Chi mi conosce sa che non posso che condividere con entusiasmo. Infatti mi è sembrato di leggere me stesso, nei concetti che esprimo da tempo. Esempio, modello, codice, sono termini che uso da anni a tesi. La tesi è proprio quella del grande cinema lontano, della decadenza nelle ultime epoche, soprattutto del cinema italiano. Il tutto espresso in chiave di innamorato tradito che ha sempre frequentato il cinema con passione, e che da tanto tempo, salvo rare, rarissime eccezioni, esce dalle sale annoiato e depresso, magari arrabbiato. Naturalmente è impossibile in un solo pezzo raccontare una sintesi. In sintesi posso esprimere delle differenze di qualità in categorie: le stagioni, il linguaggio, l'estetica, la scrittura, il mercato, il sociale e la politica. Soprattutto la potenza. Chi segue i miei interventi su MYmovies, sull'attualità e sulla storia, queste categorie le trova raccontate nei vari capitoli, che poi sono diventati anche libro (Storie di cinema), con l'integrazione dei miei pezzi cartacei e dei corsi al Centro Sperimentale e all'Accademia di Brera.

Triste
Questa epoca triste del cinema la si deve anche alla critica prevalente che ha sostenuto troppo a lungo film senza qualità. Quando dico prevalente alludo a testate e piattaforme importanti, accreditate e ufficiali, e poi alle mostre e ai premi autoctoni, insomma a tutto ciò che in qualche modo fa opinione. Quella critica si è mossa politicamente, c'era un mercato da tutelare, c'era il movimento nazionale da sostenere, c'era insomma il dovere, anche legittimo, della difesa, che però diventava sempre più d'ufficio. Anche MYmovies è una piattaforma importante che fa opinione, e diciamo che io sono tra i suoi fondatori e dunque non può che mantenere parte della mia vocazione. Non sono stato difensore ma pubblico ministero. Ribadisco, da molto tempo.

Generazioni
Qualche tempo fa lo scrittore-critico Franco Cordelli, sullo stesso Corriere ragionava sugli scrittori italiani delle ultime generazioni, su una cinquantina di nomi. Non ne citerò 50, non ne citerò neppure uno. Però ne farò alcuni delle generazioni precedenti: Pavese, Calvino, Moravia, Lampedusa, Vittorini. A fronte di questi maestri non riesco, proprio non riesco, a porre un contemporaneo. Cordelli delineava un panorama generale triste e impoverito e denunciava, fra le altre, l'assenza di potenza. Potenza è la parola chiave. Tale mancanza la si può riferire, per cominciare (e subito finisco), al nostro Paese. E la si può riferire, perfettamente, al nostro cinema. Sembrerebbe dunque un male d'arte comune, ma non c'è davvero il gaudio di nessuno. Il cinema manca di potenza. Alcuni dei nomi della critica prevalente, ribadisco, rilevando il degrado, hanno evocato le grandi opere del passato. Confronto impari, anzi impietoso. Sopra, all'inizio, il modello era Huston. Voglio ricordarne uno mio personale. Qualche anno fa ero a Venezia nella commissione del Festival. Quell'anno fu attribuito il Leone alla carriera a Stanley Donen. Sul grande schermo passarono sequenze di Cantando sotto la pioggia, Sette spose per sette fratelli, Arabesque, Due per la strada. Poi fu la volta delle sequenze di film in concorso. Le costernazione era generale, a molti venne il magone.

Decadenza
Una delle cause della decadenza è stata indicata nella sindrome da televisione che appartiene allo spettatore. La tivù, in sostanza ha rieducato, anzi diseducato l'utente. È vero, la televisione è devastante, e ha tutto derubricato, però il cinema non doveva rincorrerla, e se gli autori fossero stati veri autori, l'avrebbero ignorata e sorpassata. Maledetto mercato. E comunque, per tanto tempo, la Critica non avrebbe dovuto assecondare l'imbarbarimento usando indulgenza, come ha fatto. In questa stagione la critica ha cambiato rotta, ma solo quando si è accorta che non era più possibile difendere l'indifendibile.
Un critico importante, un monumento, una vera piramide di Cheope, ha detto che il compito del recensore continua ad essere quello di educare lo spettatore. Ho sempre nutrito tanta diffidenza, molti lo sanno, rispetto a quella missione. Con un pizzico di paradosso, solo un pizzico, dico che spesso è il critico che dovrebbe essere educato dallo spettatore. La decadenza avrebbe dovuto essere indicata prima. Sarebbe stata un'azione utile, magari terapeutica. Quando dico azione terapeutica alludo a quegli autori che sono stati gratificati da alti giudizi e da premi (nostrani, perché quelli importanti, internazionali non ci gratificano per niente) sproporzionati. Se non fossero stati viziati, magari avrebbero fatto film migliori. Nel panorama internazionale cito un solo nome come paradigma, i Coen. Dopo Il grande Lebowski e Fratello, dove sei, capolavori, hanno firmato titoli in decadenza. Non è un paese per vecchi, ha vinto degli Oscar, ma è un film come tanti. Un film di queste ultime stagioni.

Giudizio
E qui si pone il discorso sul giudizio, sulle stellette. Se tu assumi, in assoluto, i giudizi delle opere che non si fanno più, insomma, se dai 5 stelle (fra gli altri) a Cappello a cilindro, Tempi moderni, La grande illusione, Via col vento, Les enfants du paradis, Ossessione, Il porto delle nebbie, Notorious, Ladri di biciclette, Viale del tramonto, Cantando sotto la pioggia, Shane, Il posto delle fragole, Sentieri selvaggi, Lawrence d'Arabia, Amarcord, Qualcuno volò..., Il padrino, Apocalypse now, dove li trovi altri titoli recenti... adeguati? Devi resettare la qualità delle stelle rispetto a questo tempo. Invece la critica prevalente ha continuato ad attribuirle come se il peso fosse lo stesso di prima. E ha attivato un dolo, dando il massimo giudizio relativamente alla qualità del momento, che non è quella assoluta. Non si dovrebbe fare. Io non l'ho fatto. Dopo Apocalypse now (1979) ho consegnato le 5 stelle a due soli titoli: Fratello, dove sei, dei Coen, e La passione di Gibson. Anche le 4 stelle le ho dispensate con molta prudenza. Promemoria di assunto: niente è più discrezionale del cinema, questa è la mia discrezione, semplicemente, discutibilissima. E infatti è discussa.

Protocritico
Un film che ottenuto critiche ottime, portato a modello dell'anno anche dal protocritico monumentale, è L'uomo che verrà di Giorgio Diritti. Si è visto attribuire le 5 stelle. Narrasi la vicenda dei nazisti a Marzabotto. Un'altra vicenda di nazisti in Roma, Roma città aperta, presenta le cinque stelle, di tutti in ogni epoca. Ma quella di Rossellini è un'opera d'arte generale, quella di Diritti un buon film, un bel promemoria di quello che sapevamo fare. Certo, nel quadro di questo tempo è l'eccellenza, è il "cinquestelle", ma nel criterio assoluto atemporale è da tre stelle. Nella mia discrezionalità tante gliene ho attribuite. Voglio concludere ancora più in positivo, con un altro titolo, che sorpassa il ruolo di promemoria e che presenta una bella qualità assoluta, Noi credevamo, di Mario Martone. Ho già avuto modo di dirne bene. Insisto. Nel "Farinotti" presenta tre stelle. Ma solo perché non è prevista la mezza. Tre stelle e mezza "atemporali".

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