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Departures, o della dolce morte

Una storia delicata che riflette sulla morte con coraggio e consapevolezza.
di Emanuele Sacchi

Il progetto dell'attore Masahito Motoki
Masahiro Motoki (58 anni) 21 dicembre 1965, Saitama (Giappone) - Sagittario. Interpreta Daigo Kobayashi nel film di Yojiro Takita Departures.

lunedì 15 marzo 2010 - News

Il progetto dell'attore Masahito Motoki
Dieci anni trascorsi a sperare di vedere realizzata l'idea dell'attore Masahito Motoki (The Bird People of China), quella di un film su un tema così caro alla tradizione giapponese - il culto quasi egizio dei morti e la loro preparazione all'aldilà, estetica e spirituale - e nel contempo così irto di ostacoli da affrontare (apparentemente poco adatto al cinema, ecc.). La dedizione riposta da Masahito nei confronti del progetto si ritrova per intero nella straordinaria interpretazione del problematico protagonista Daigo, altrettanto devoto e perfezionista nell'abbellimento di cadaveri che spesso permettono al defunto di uscire di scena meglio di come ci fosse entrato. È il protagonista di Departures, film di Takita Yojiro vincitore Oscar nel 2009 come miglior film straniero.
Le emozioni che si susseguono e l'alterazione degli stati emotivi di Daigo, posto di fronte a un bivio esistenziale e costantemente indeciso sulla strada da intraprendere, vengono rese con pochi ma essenziali cenni dal minimalismo di Masahito, esemplare nei panni di un uomo comune trascinato dagli eventi verso un destino - da principio rifiutato recisamente - di nokanshi, ossia colui che si occupa del make-up dei defunti con l'amore e la dedizione che si riserva a un rito sacro. A metà strada tra Caronte e Anubi, per una dolce e dignitosa (sempre al centro nella società giapponese) transizione verso l'aldilà. Solo che Daigo finisce per scoprire di non essere un nokanshi qualsiasi, bensì il migliore dei nokanshi possibili, pietoso ma soprattutto scrupoloso di fronte a tutti, compreso il transessuale a cui dedica una delle sue migliori opere.

Takita Yojiro: come diventare autore al quarantesimo film
La parabola di Departures di Takita Yojiro è quella tipica del film orientale destinato a sfondare in occidente, quantomeno a livello di premi o riconoscimenti. A cominciare dal profilo basso del regista, tutt'altro che un autore di culto in patria. Dopo avere iniziato – come molti celebrati autori, da Kurosawa Kiyoshi in giù – dal pinku eiga (forma peculiare di soft-porno nipponico) con la serie dal titolo ampiamente esplicativo di Molester's Train, Takita Yojiro è transitato per diversi generi e sottogeneri prima di trovare la sua vera voce. Nel 1986 si fa vedere a Cannes con la commedia No More Comic Magazines! ed è il preludio a una carriera di film su commissione, sciocchezzuole più o meno imbarazzanti e routine varia di quello che negli States verrebbe chiamato, senza tanti giri di parole, shooter.
Ma se non molti avrebbero scommesso su Takita negli '80 e '90, forse ancora meno l'avrebbero fatto dopo The Yin Yang Master, fantasy pasticciato e farraginoso, anche se successo al botteghino (tanto che giunse ad essere distribuito anche in Italia). Nel frattempo Takita stava già lavorando su quella che sarebbe diventata la sua opera emblematica e che, forse, lo rimarrà: Departures, naturalmente.
Fermo restando che Departures è film fortemente giapponese tanto nella concezione che nei tempi cinematografici, è indubbio notare come questo orgoglio local sia del tutto funzionale a una fruizione occidentale. La tipizzazione delle situazioni e l'alternanza di elementi che appartengono inequivocabilmente al bagaglio di registi come Ozu o il suo erede odierno Koreeda Hirokazu (Still Walking, Nobody Knows) si amalgamano, nell'astuta cornice predisposta da Takita e impreziosita dalle musiche dell'ubiquo Hisaishi Joe, con parentesi o modalità di risoluzione evidentemente ad uso e consumo del pubblico occidentale. La sequenza meditativa in cui Daigo suona il violoncello en plein air immerso nella natura, per citare la più emblematica, pare realizzata apposta per comparire in uno snippet da candidati all'Oscar come Miglior Film in Lingua Straniera e, (non) casualmente, questo è puntualmente avvenuto. L'Academy non ti premia se prima non ti esibisci in un inchino, specie se sei foresto; è una legge non scritta, ma fortemente presente e destinata a non cambiare. La stessa trattazione dei sentimenti accantona ben presto l'understatement e l'interiorizzazione nipponici in favore di una costruzione del climax con catarsi conclusiva totalmente occidentale. Un prodotto da esportazione, quindi, per quello pensato e perfettamente riuscito per assolvere il compito. Se questo può aiutare a far ricomparire il cinema giapponese anche nelle nostre sale, c'è da augurarsi che Takita faccia scuola e al più presto.

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