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Il cinema dalla parte dei diritti umani

Si è conclusa la nona edizione di Human Rights Nights – arts and film festival.
di Luisa Ceretto

I documentari presentati

martedì 7 aprile 2009 - News

I documentari presentati
Si è appena conclusa la nona edizione di Human Rights Nights – arts and film festival (Bologna, 27 marzo – 5 aprile 2009), promosso dal Comune, dalla Cineteca e dall'Università di Bologna.
Due le sezioni competitive dedicate a documentari e cortometraggi. Dieci i documentari provenienti da varie parti del mondo, legati ai diritti umani, ricordiamo, tra gli altri, I Bring What I Love di Chai Vasarhelyi, che racconta il viaggio di Youssou N'Dour tra Islam e spiritualità baye fall in Senegal sino alla città sacra di Touba, durante la promozione delle musiche di Egypt. War on Democracy, è un reportage del giornalista e filmaker John Pilger, sull'influenza degli Stati Uniti nella politica e nelle scelte economiche del Medio Oriente e dell'America Latina. In Democracy in Dakar di Ben Harson e Magee MacIlvaine e in Sling Shot Hip Hop di Jackie Reem Saloum, la musica si traduce in strumento di resistenza quotidiana. Humillados y Offendidos di César Brie, Pablo Brie e Horacio Alvarez, denuncia gli attacchi razzisti nei confronti dei campesinos boliviani. Nella sezione dei cortometraggi (dodici), Viko di Larjsa Kondracki, sulla rete del traffico sessuale nell'Est Europa. Diversi i titoli accomunati da protagonisti molto giovani. Una Vida Mejor di Luis Fernandez Reneo racconta la tragica avventura di tre bambini messicani nel deserto al confine con gli Stati Uniti. In Mofetas, di Inès Enciso, premiato come miglior cortometraggio, due giovani clandestini cercano di passare la frontiera, nascondendosi sotto agli autocarri. I bambini soldato sono i protagonisti del film di Leonardo Guerra Seràgnoli, Alfred; About the Shoes, diretto da Rozàlie Kohoutyova, racconta dei piccoli Rom che vivono nella Repubblica Ceca. E ancora bambini poveri sono ritratti in Hungry God di Sukhada Gliokhale-Bhonde. In collaborazione con Gender Bender Festival, sono stati presentati due documentari, Jihad for Love di Parvez Sharma (in concorso) sulla relazione tra Islam e omosessualità e The Times of Harvey Milk, da cui è stato tratto il film Milk diretto da Gus Van Sant. Come gli altri anni, il festival ha collaborato con organizzazioni non governative, come Amnesty International, con la presentazione del film che ha vinto il concorso, Taxi on the Dark Side di Alex Gibney sulle torture a Abu Ghraib e a Guantanamo, e Anna, 7 Years on the Frontline di Masha Novikova sulla giornalista russa Anna Politkovskaya uccisa nel 2006 a Mosca.
Tra le presentazioni fuori concorso, citiamo il film La Forza del Ricordo di Davide Masi e Graziano Cernoia, sul viaggio ad Auschwitz di studenti ed insegnanti e Life in the City di Laye Gaye, sulla vita di un immigrato a Bologna. Della serie Illegal and Wanted di Roberto Silvestri, ricordiamo i film sulla prostituzione, Working Girls, di Lizzie Borden e The Good Woman of Bangkok di Dennis O'Rourke. Africa Unite di Stephanie Black, girato ad Addis Abeba, in occasione del sessantesimo compleanno di Bob Marley, è il film con cui si è conclusa l'iniziativa.
Il cinema internazionale degli ultimi anni
Negli ultimi anni la cinematografia internazionale ha dedicato particolare attenzione alle tematiche legate ai diritti umani, i premi e i riconoscimenti delle più grandi vetrine festivaliere internazionali, come il Sundance, Toronto, Cannes, Venezia e Berlino ne sono la conferma. Argomenti che forse fino a qualche tempo addietro non avrebbero trovato spazio che all'interno di circuiti specialistici, di addetti ai lavori, ora costituiscono, invece, il fiore all'occhiello della produzione mean stream.
Basti pensare all'attenzione rivolta a pellicole come Miracolo a Sant'Anna di Spike Lee, a The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, o al documentario Below Sea level di Granfranco Rosi, e ancora a Resolution 819 di Giacomo Battiato, titoli presenti anche nella rassegna bolognese.
E' la stessa congiuntura attuale a permeare il grande schermo di temi e problemi entrati nel quotidiano collettivo, lo scatenarsi delle ultime guerre, la crisi ambientale, i conflitti etnici e culturali, e il dramma della povertà che affligge sempre più popolazioni e che, prepotentemente, si è riaffacciata in tutta la sua urgenza, dopo che la recente recessione economica ha modificato e scardinato certezze e stabilità nel mondo intero. Nella produzione più recente di fiction e di documentari riguardanti i diritti umani, si riflettono tra l'altro gli effetti di svolte epocali. Dopo un decennio segnato dalla prima guerra in Iraq e dalle guerre nei Balcani, l'attentato dell'11 settembre del 2001 alle Twin Towers ha profondamente modificato la percezione collettiva, condizionando il modo di vivere, ma anche il modo di rappresentarsi e di relazionarsi degli americani col resto del mondo, uno sconvolgimento che ha finito col riflettersi in una produzione filmica internazionale segnata da nuove inquietudini.
D'altra parte le profonde trasformazioni tecnologiche, in particolare l'uso del digitale ha impresso innegabili mutamenti nell'espressione cinematografica rendendola accessibile ad un maggior numero di registi, di esordienti desiderosi di cimentarsi nella regia. E' nel corso di un decennio, infatti, che è andato modificandosi il modo di fare documentario. Protagonista di questo rinnovato interesse verso il genere documentario è Michael Moore, attivo sin dagli anni novanta, ma che all'affacciarsi del ventunesimo secolo, ha catturato l'attenzione degli schermi festivalieri grazie alle immagini del suo cine-pugno, immortalando le ferite dell'America dell'era di Bush.
Un cinema "sporco", contaminato, che attinge alle immagini della rete, oltre che a quelle televisive, che formula il proprio "j'accuse" ad alta voce, uno sguardo forse un po' semplificato e fazioso, il cui merito è stato certamente quello di aver sensibilizzato l'opinione pubblica su questioni e tematiche sociali.
L'irruzione della realtà, grazie anche alla diffusione delle immagini sul web, ad un'informazione in tempo reale, ha inevitabilmente contribuito ad un'evoluzione molto rapida e ad una fruizione differente del mezzo cinematografico, aprendo la sensibilità collettiva a svariate tematiche internazionali. Forse, proprio in questi ultimissimi due o tre anni si registra, rispetto ai primi anni del 2000, oltre al proliferare di documentari, una crescente produzione di docu-fiction e di pellicole di fiction. Quasi che, dopo un riavvicinamento alla realtà, per così dire, più diretto, grazie all'opera di film di Moore o di altri registi affini, vi sia l'esigenza di rielaborarla, in tutta la sua complessità, anche sul piano linguistico.
A questo proposito, possiamo portare l'esempio della rapida evoluzione della raffigurazione della guerra in Iraq nelle più recenti opere, da Redacted di Brian di Palma, a La valle di Elah di Paul Haggis, e infine all'ultimissimo, The Hurt Locker della regista Bigelow. Nelle prime due pellicole l'immagine attinge spesso a scene riprese dai telefonini che ritraggono una realtà qui e ora, tesa a coglierne la sua veridicità, la sua impellente urgenza. Nel film di Bigelow, invece, l'immagine è più ricercata, fa "sentire" la scelta dell'inquadratura, di un filtro, cinematografico, appunto. Esemplari due sequenze: quella iniziale, la soggettiva di un robot antimina, che mette a fuoco il suo bersaglio, man mano che vi si avvicina e nel finale, la sequenza in cui il soldato, rientrato negli States, in seno alla famiglia, scruta davanti a sé, smarrito, la miriade di scatole colorate di leccornie di ogni tipo riposte sullo scaffale di un supermercato. La forza metaforica di queste due scene, restituisce il senso di alienazione e la follia del conflitto, forse con maggiore intensità rispetto ad un'immagine "colta dal vivo".
Un cinema sempre più attento a cogliere forme nuove di disagio collettivo
In questa stessa direzione, si muovono una serie di pellicole che fanno luce su eventi storici riletti sotto una prospettiva insolita, particolare. E' certamente il caso del capolavoro di Clint Eastwood, Lettere da Iwo Jima, la lettura della battaglia dalla parte dei Giapponesi, o dell'analisi del conflitto arabo-palestinese di Avri Mograbi con Z32, a partire dalle testimonianze di ex soldati raccolte all'interno di un progetto che prevede la creazione di un archivio di memorie ed esperienze dei conflitti nella West Bank.
Più recentemente, la rielaborazione della strage di Sabra e Chatyla nel film di animazione, Valzer con Bashir di Ari Folman, è l'esempio calzante di un cinema che coniuga egregiamente la sperimentazione linguistica, all'impegno e alla denuncia.
Vi sono opere che affrontano pagine ancora poco note della Storia recente come Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck, sulle persecuzioni e lo spionaggio ad opera della Stasi, la polizia segreta della Ddr, i cui archivi furono aperti alla caduta del Muro di Berlino. Kathyn di Wajda, film dal valore storico oltre che cinematografico, getta luce sull'eccidio avvenuto in Polonia nel 1940, dove l'esercito sovietico fucilò venticinquemila cittadini polacchi, un massacro oggetto di una propaganda di falsificazione e occultamento della verità (si legga, a tal proposito, l'interessante saggio Pulizia di classe. Il massacro di Kathyn di Victor Zaslavsky, Il Mulino, 2009).
Il giardino dei limoni di Eran Riklis esprime una nuova attenzione verso temi legati ai diritti umani, un modo di sentire più in linea coi tempi di oggi, che si traduce in una rarefazione del racconto, verso l'esemplificazione sul piano linguistico. La lotta contro il tribunale israeliano ad opera di una donna palestinese per la salvaguardia della propria piantagione di limoni, diventa metafora di un difficile dialogo israelo-palestinese. Anche in certe pellicole di Susane Bier, come ad esempio in Non desiderare la donna d'altri, e come ancora in Dopo il matrimonio, fanno da sfondo a vicende personali, tematiche legate rispettivamente al conflitto in Afganistan, e al diritto alla scolarizzazione dei bambini indiani.
Il cinema è sempre più attento nel cogliere forme nuove di disagio collettivo, come la convivenza multiculturale nelle grandi città occidentali. L'ospite inatteso diretto da Thomas McCarthy, ne è un esempio, ma anche lo sguardo denso di umanesimo eastwoodiano di Gran Torino. Tutto il cinema di Fatih Akin e in particolare La sposa turca e Ai confini del paradiso è caratterizzato da un'attenzione all'alterità, alla composizione multietnica della realtà tedesca, da un lato, delle contraddizioni interne alla società turca, dall'altro.
Tematiche che, per l'appunto, forse fino a qualche tempo fa non avrebbero raggiunto neppure qualche sezione collaterale dei Festival internazionali e che ora, al contrario, occupano un posto di rilievo. Il caso più eclatante è The Millionaire per la regia di Danny Boyle, vincitore di otto premi Oscar. Servendosi dello stile Bollywood e dei suoi stilemi, il film soddisfa appieno le ragioni per così dire commerciali e al contempo riesce ad avvicinarsi e a raccontare una altrimenti complessa e articolata realtà come quella dell'India odierna.

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