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5x1: Clive Owen, il bel tenebroso

Sguardo profondo, barba perennemente incolta, l'attore inglese è ormai un sex symbol.
di Stefano Cocci

Un re Artù sui generis
Clive Owen (59 anni) 3 ottobre 1964, Coventry (Gran Bretagna) - Bilancia. Interpreta Ray Koval nel film di Tony Gilroy Duplicity.

martedì 7 aprile 2009 - Celebrities

Un re Artù sui generis
Il curriculum di Clive Owen è poliedrico, intenso e, soprattutto, lascia una porta aperta a tutti i quarantenni: non è mai troppo tardi per il successo. Il suo anno magico, infatti, è il 2004 quando, a 42 anni suonati, tutti lo cercano e tutti lo vogliono e, se eri suo amico, era più facile incontrarlo in una sala cinematografica che a casa a badare alle sue due figlie, avute da un'attrice conosciuta interpretando Romeo e Giulietta – lui Romeo, lei Giulietta, non c'è niente di più romantico? In quell'anno Clive compare in Amore senza confini, King Arthur e Closer.
È la scoperta di un personaggio nuovo, che nei lineamenti del viso ha le sconfitte, le ferite ma anche la necessaria cattiveria per superarle e andare avanti. Non è un caso che sia un Re Artù assolutamente sui generis, che in Closer, il film che gli regalerà un Golden Globe, sia un dottore osceno, volgare e sessualmente spregiudicato, e che spesso sia chiamato per ruoli se non da bandito, quanto meno da uomo che vive sul confine tra giustizia e vendetta, legalità e crimine. Anche in Duplicity di Tony Gilroy – il regista di Michael ClaytonOwen si muove lungo una linea d'ombra in bilico tra due mondi in cui improvvisamente si inserisce l'attrazione per Julia Roberts, nei panni di un'affascinante rivale.

Inside man
Gangster, gentiluomo o forse tutti e due? Come tentare un colpo in banca, sconvolgere New York ed uscirne con la borsa carica di quattrini senza sparare un colpo di pistola. È uno dei migliori film di Spike Lee, uno dei pochi, forse, dove la forza polemica e l'attitudine politica del regista afro – americano restano in secondo piano per concedersi solo alla tecnica cinematografica. Ne esce fuori un film saturo di virtuosismo registico e che utilizza al massimo la cifra stilistica dei protagonisti: la verbosità di Washington, lo spessore della Foster e l'attitudine da teppista di Owen, con quella faccia, non ti aspetteresti mai un piano tanto astuto.

Closer
Ad oggi, probabilmente, è il ruolo più importante di Clive Owen, uno di quelli per cui potrebbe essere ricordato. Il film ha un certo spessore, un regista appartenente all'aristocrazia di Hollywood (Mike Nichols, quello de Il laureato, uno che ha costruito una carriera importante intrecciando storie intorno all'amore), tratto da una piece teatrale di quelle importanti (firmata da Patrick Marber). Soprattutto Closer ha un cast di quelli che ti trascinano al cinema: Julia Roberts, Jude Law, Natalie Portman. Owen rischiava di diventare il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro, invece è quello che se è tornato a casa con i premi, la stima della critica e l'apprezzamento del pubblico femminile.

The International
Clive Owen è l'agente dell'Interpol Louis Salinger, uno che ha una storia difficile di indisciplina alle spalle e che si trova ad indagare assieme ad un affascinante procuratore distrettuale americano (che ha il volto, i capelli ed il corpo niente male di Naomi Watts) su di un intrigo internazionale che si intreccia sul traffico d'armi. È chiaro che l'attore inglese sia ancora una volta sul suo campo da gioco preferito: può lanciarsi in sparatorie nel Guggenheim Museum, inseguire i criminali sui tetti di Istanbul, ma anche stare scartabellare files davanti al computer, mostrare la sua barbetta incolta per affascinare le sue compagne sullo schermo – e le adoranti fans in sala. Il film si segnala, quindi, per tutto questo ma anche per l'inquietante ruolo da candidato Presidente del consiglio italiano di Luca Barbareschi, che interpreta un imprenditore che crea un partito, Futuro Italiano, e che se non fosse ucciso davanti alla stazione centrale di Milano avrebbe pure vinto le elezioni. Quando la realtà supera la fantasia...

King Arthur
Il film si richiama in apertura e delle non meglio precisate "recenti scoperte archeologiche". È un trucco vecchio come il mondo, o almeno quanto Alessandro Manzoni, quello di ammantare di veridicità storica delle opere di fiction. Se sia esistito veramente un cavaliere romano che si oppose ai sassoni e diedi il via ad una leggenda che a noi è arrivata sotto il nome di Re Artù, non è dato sapere. È certo che il film di Fuqua – il regista di Training Day che deve essersi perso tra qualche parte tra l'Oscar Denzel Washington e lo Shooter con Mark Wahlberg – resta un'opera dal budget importante finito per metà. Affascina ma non conquista. Ha il merito di scoprire oltre al nostro Clive anche Keira Knightley, che qui interpreta una Ginevra quanto mai combattiva.

Sin city
La complessa opera di Frank Miller dà vita ad un film affascinante ma forte così colmo di riferimenti stilistici e spunti tecnici da perdere di vista il risultato finale. Owen è perfetto nei panni di Dwight: sempre barbetta incolta, evidenti capacità di sedurre l'altra metà del cielo (anche se si tratta di prostitute dedite all'ultraviolenza) ancora una volta un personaggio con un personalissimo senso della giustizia – anche se forse sarebbe meglio dire vendetta – e con una chiara attitudine alla carneficina. Indimenticabile la scena in macchina in cui intrattiene un dialogo shakespeariano con la testa di Benicio del Toro.

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