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Storia 'poconormale' del cinema: il grande cinema del Nord

Una rilettura non convenzionale della storia del cinema secondo Farinotti.
di Pino Farinotti

III puntata: il grande cinema del Nord

venerdì 13 marzo 2009 - Focus

III puntata: il grande cinema del Nord
Seppure nell'ambito di una storia del cinema diversa, non convenzionale, poconormale, ci sono dei momenti classici che possiedono una franchigia. Non sono suscettibili di interpretazioni. Ci sono movimenti talmente precisi e armonici che rimangono quelli. Vanno considerati alla stregua di legislatori. Si tratta di estetiche, poetiche, che hanno creato dei precedenti che non ammettono evoluzioni, o trasformazioni, o licenze. Sarebbe come discutere l'Odissea, o l'Amleto, certo, lo puoi anche fare ma ti ritrovi in un esercizio sterile, un'esplorazione che si esaurisce presto, non lascia traccia. Uno di questi grandi momenti, di questi 'assoluti', è il cinema del nord. Uno dei titoli esemplari è Dies irae di Carl Theodore Dreyer, un film perfetto a rappresentare quasi tutte le estetiche e le poetiche, appunto, tutti i codici di un cinema che si pone, come detto sopra, in una posizione di vertice che trascende lo stesso concetto di cinema per porsi ad altri livelli. Tutto questo verrà raccontato analizzando quel film danese del 1943. Parte del testo deriva da un mio saggio nell'ambito della collana Grandi film grandi firme, volumi pubblicati dalla San Paolo. La comprensione di Dies irae è la comprensione di un movimento.

Vedibilità
Un criterio che non può essere ignorato rispetto a un film antico è la sua vedibilità. Possiamo dire vedibilità "postuma". Significa rapportare quel film a un tempo che non è il suo. Dies Irae ha 66 anni. Cos'è rimasto di quello che è ritenuto un capolavoro ufficiale del cinema del mondo: come eco ancora ascoltabile, come eredità spendibile, e come segnale ancora visibile? E poi c'è il ruolo "globale" assunto dal cinema, ritenuto, da molti, come "l'arte del '900". Insomma, il cinema sarebbe il titolare pressoché assoluto dell'educazione sentimentale e culturale in questa fase storica. Dies irae entra, con tutti i diritti nella cerchia, ridottissima, dei film che trascendono il cinema per diventare arte generale. "Arte generale" non significa solo grande film. Ci sono pellicole dalla natura squisitamente cinematografica, narrazioni perfette, per ritmo e montaggio, per dialoghi e interpretazioni, per contenuti e per sentimenti rappresentati. Titoli come (selezione parziale e arbitraria naturalmente) La grande illusione, Tempi moderni, Viale del tramonto, Notorious, Un uomo tranquillo, La grande guerra, Cantando sotto la pioggia, Lawrence d'Arabia, Apocalypse now, Qualcuno volò sul nido del cuculo, New York New York, Manhattan, Lisbon Story, Tutto su mia madre, Fratello dove sei, La stanza del figlio; sono, ribadiamo, capolavori di cinema per il cinema.
Ma titoli come Il Potemkin, L'Atlante, Le quai des brumes, Les enfants du Paradis, Ossessione, Ladri di biciclette, Il settimo sigillo, 2001 Odissea nello spazio, Amarcord ( e – pochi - altri naturalmente) sono opere d'arte generale, appunto, del '900. Ogni fotogramma di questi film potrebbe legittimamente riempire le sale di un Beaubourg. Dies irae fa parte di questa eccellenza. Nel tempo il titolo ha certamente perduto una parte, non grande, della sua vedibilità. Naturalmente risulta un film antico, pensato in quel tempo, e in quel momento culturale e storico, così come risulta precisamente collocato un Guernica, opera di arte perfetta per il 1937, ma custode, tuttora, di contenuti universali senza tempo. Inoltre, la forza espressiva di Dies Irae, così come dell'opera di Picasso, possiede gli strumenti per produrre ancora un impatto sentimentale esclusivo e allarmante, quasi violento. Lavori buoni per una sindrome di Stendhal. Il corpo essenziale della storia e del linguaggio resiste, soprattutto resiste il quanto non misurabile e quell'elemento chimico non definibile, che producono il passaggio da "capolavoro normale" a opera di incanto e sortilegio, qualcosa che si fonda con la nostra radice ancestrale, consolidandosi nel fondo degli strati della coscienza e della memoria, come codice esclusivo della nostra cultura e della nostra estetica. Essendo cinema, va bene anche il termine 'magia'. Estetica, metafore, simboli, insomma educazione e pensiero: pochissimi film di tutta la storia del cinema sono riusciti a rappresentare, come Dies irae, una massa così vasta e complessa di contenuti.

Soggetto
Danimarca 1623. I personaggi: Absalon, anziano pastore, ha sposato in seconde nozze Anne, molto più giovane di lui. Marta di Herlof, accusata di stregoneria,a giudicarla sarà Absalon che nasconde, come si dice, uno scheletro nell'armadio: aveva messo a tacere le accuse contro la madre di Anne a sua volta accusata di stregoneria. Marta ne è al corrente. Arriva Martin, primo figlio di Absalon, incontra Anne, la matrigna, per la prima volta, i loro sguardi sono più che eloquenti.
C'anche Merete, madre di Absalon, che incombe su tutto, nulla le sfugge, e nel profondo odia la nuora. Marta viene interrogata e torturata dai giudici. Scongiura il pastore di aiutarla, come aveva fatto per la madre di Anne. Absalon, senza nessuna pietà, non muove un dito. Martin e Anne si sono innamorati. I due si isolano nel bosco. La strega, urlante di rabbia verso Absalon viene bruciata sul rogo. Anne conosce tutte le verità e ha preso a odiare il marito. Desidera la sua morte. Si accredita, lei figlia di strega, come strega a sua volta. Confessa ad Absalon il suo amore per Martin. Il vecchio pastore si porta la mano sul cuore e muore. Martin sospetta del potere e dell'azione della matrigna e gliene chieda ragione, la donna confessa di aver desiderato la morte del marito, ma di non aver usato "quei" poteri. Ma è Merete a determinare i destini. Accusa la nuora di stregoneria. Martin, debole, non ha la forza di difendere Anne, che abbandonata, delusa e travolta dal pregiudizio, confessa un delitto che non ha commesso.

Quadro storico
La storia del pastore Absalon e di sua moglie Anne vive in Danimarca nel 1623. Dreyer lavora a Dies irae nel 1942. Quel paese aveva vissuto, in quelle due epoche, vicende storiche per certi versi omologhe. Attraverso due guerre, decisive, devastanti. La Danimarca si trovò ad essere uno degli stati protagonisti nella fase, detta appunto "danese", della guerra dei trent'anni (1618- 1648). La guerra aveva coinvolto tutte le grandi potenze d'Europa. Le cause erano complesse: le ambizioni degli Asburgo che intendevano realizzare uno Stato che mirava a una supremazia sull'area tedesca e successivamente su gran parte dell'Europa; le intenzioni espansionistiche della Francia e della Svezia; e poi l'immancabile pretesto religioso, il contrasto fra cattolici e protestanti. La guerra si concluse con la fine del dominio spagnolo, la prevalenza francese nel centro dell'Europa e di quella svedese nel Baltico. In questo quadro agisce Cristiano IV, re di Danimarca e Norvegia. Cristiano è ambizioso e aggressivo, dopo un breve conflitto con la Svezia che gli vale alcuni vantaggi territoriali, ottiene un appoggio dell'Inghilterra e si schiera contro gli Asburgo, ma viene sconfitto.
Nel 1623 il luteranesimo è religione di stato da meno di un secolo, dunque non ancora del tutto consolidata. L'angoscia attonita sospesa sulle teste dei personaggi di Dies Irae può dunque legarsi al re che con le sue strategie complicate e pericolose non contribuisce certo alla serenità dei suoi sudditi.
È la stessa "angoscia attonita" dei danesi, e di Dreyer, nel 1942. Il 9 aprile del '40 i nazisti hanno invaso la Danimarca. Il Paese è culturalmente neutrale - una posizione assunta anche durante la prima guerra mondiale - tanto da non avere quasi un esercito. Re Cristiano X si rende conto dell'inutilità di una resistenza e ordina la resa del suo piccolo, quasi simbolico, esercito. I caduti danesi saranno undici. La neutralità viene formalmente rispettata da Hitler, il re e il governo restano al loro posto, tuttavia la Danimarca è di fatto occupata. La situazione è semplice: i danesi si affidano alla clemenza del vincitore. È in quel contesto che Dreyer dirige il suo film. La ribellione di Anne nei confronti di Absalon, che intende essere padrone del suo corpo e della sua anima, può anche essere letta come segnale, intimo e imploso di dolorosa accettazione dell'oppressione tedesca.

Espressionismo
Raccontando Dreyer non si può non rifarsi all'espressionismo, quel movimento, artisticamente decisivo, sviluppatosi in Germania fra il 1905 e il 1930, dunque negli anni di maggiore energia creativa e di più forte curiosità ed entusiasmo del regista. L'espressionismo, applicato all'inizio soprattutto alle arti figurative, "invase", via via, la letteratura, il teatro, e poi il cinema: significa eccesso di espressione, nei gesti e nell'estetica, soprattutto attraverso l'uso delle luci e, ancora di più, delle ombre. Come sempre il cinema rappresentò un'evoluzione anomala e disordinata, come sempre si appellò alla propria fisiologica franchigia del non rigore, perché se applichi l'eccesso di espressione solo alla scrittura, o solo alla pittura, o solo al teatro, allora ti muovi in confini che favoriscono una disciplina, ma se quella disciplina la porti nel cinema, devi vedertela con una gestione complicata e articolata, troppo: la musica, l'immagine, la scrittura, tutti insieme. Insomma devi far convivere, tenere a bada tutto in un eccesso, e non è facile.
L'espressionismo poteva rappresentare una pratica utile nei film muti, dove l'eccesso andava a compensare e a soccorrere la mancanza della parola. Ma col "parlato" le misure andavano pesate con grande attenzione, lo spartiacque fra un'opera d'arte di energia maggiore e un'anarchia estetica grottesca era molto sottile. Un' opportunità tanto efficace, in cinema, fu spesso gestita da autori inadeguati. Anche Hollywood la importò, con risultati contrastanti. Spesso si assisteva a sequenze "normali", di azione e dialogo di basso profilo, con coni di ombre che rilanciavano su mura immense un capitan Blood, dottore, che si aggira in un ambiente più simile a una sala d'armi regale che a uno studio medico. Anche in Quarto potere lo stesso Welles esaspera una riunione di redazione fra chiari e scuri drammatici, alla Ivan il terribile. Ma si sa, a Welles era riconosciuta una forte franchigia. Il suo non era errore, era anarchia geniale.
Dreyer invece seppe tenere a bada l'"espressione", anzi la assunse con grande naturalezza, facendone parte integrante, e nobile, della sua poetica e della sua estetica, registrandone l'intensità a seconda delle opere e diluendola dopo la sua prima fase. Il Dreyer espressionista è soprattutto quello dei "muti" iniziali, e di Vampyr, dove la seduzione espressionista è davvero irresistibile, applicata com'è a un contenuto da visione, inquietudine e delirio, con un'apertura all'horror, e dove il tutto deve vivere sulle atmosfere, dunque proprio sulle luci e sulle ombre.

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