Un testo di culto
Pubblicato con grande successo nel 1961, "Revolutionary Road" diventa presto un libro di culto, il capolavoro di Richard Yates e il termine di paragone per ciò che di altissimo si può fare con le parole. La storia di Frank e April Wheeler, che da Manhattan si sono trasferiti nella suburbana Revolutionary Hill convinti che non avrebbero mai assomigliato ai loro vicini, che si sarebbero mantenuti esseri speciali -c olti, illuminati, giovani - nonostante il lavoro "cretino" di lui e la trasformazione in casalinga di lei, ma vengono messi atrocemente in crisi dalle parole di un presunto matto e dalla prospettiva del vero cambiamento, ha da sempre incuriosito il cinema ma fino ad ora Hollywood non se l'era sentita di arrivare fino in fondo, fino a quel finale. Ci pensa Kate Winslet, che si fa paladina dell'impresa, dapprima convincendo Leonardo DiCaprio a rimettere piede sulla sua stessa "barca", quindi imponendo il marito Sam Mendes al timone. "Perché i grandi libri, come i grandi amici, devono essere condivisi", scrive Richard Ford nell'introduzione al romanzo.

Due interpreti senza pari
La Winslet dà carne e sangue alla figura di April, senza spogliarla della sua caratteristica di carta, ovvero quella di essere un amabile, intelligente, raggomitolato fascio di nervi, per il quale ogni parola, perché detta o perché non detta, e ogni gesto hanno un peso specifico preciso, che non le sfugge e che, pian piano, da significativo si trasforma in intollerabile. DiCaprio inventa un personaggio radicalmente diverso dai precedenti, arrivando al naturalismo attraverso un lavoro impegnativo e impressionante, che di "naturale" non ha nulla, se non il talento. Da soli, guidati dalla colonna sonora e immersi in quegli interni anni Cinquanta così tanto Mad Men, i due interpreti fanno il film. O forse no, non senza comprimari quali David Harbour (Shep Campbell), Kathy Bates (Mrs. Givings) e Michael Shannon (John Givings). Mendes, alla regia, resta freddo, intimorito dal modello al punto da non osare inventare immagine alcuna, preferendo un'aderenza mimetica alle immagini (tante, meravigliose) del libro, ma incappando, così facendo, in un tono solenne che è più che mai rivelatorio.

Omettere è un po' tradire
Il patto di fedeltà al testo di Yates è un patto d'acciaio. Dalla prima all'ultima scena. Eppure, un piccolo slittamento del punto di vista e un'importante omissione lo riscrivono parzialmente. Il film riequilibra il fuoco del romanzo, che era sbilanciato sul personaggio di Frank, probabile alter ego dell'autore (che scriveva i discorsi di Robert Kennedy come Frank scrive a braccio quelli promozionali per la sua azienda) e concede ad April il palco che merita, senza, fortunatamente, tentare in alcun modo di spiegarne il mistero. Omette, però, la sua back-story, il racconto di come, abbandonata dai genitori per mero disinteresse, sia stata cresciuta dalla zia, in un debito d'amore mai colmato. Se l'informazione non sembra di primo acchito andare oltre la sfumatura, a ben guardare così non è affatto, perché April ha due figli che faranno la stessa fine. Richard Yates colpisce duro e non ha paura di raddoppiare i pugni nello stomaco del lettore. Il film doveva scegliere, naturalmente, non poteva contenere tutto. Per nostra fortuna c'è il romanzo, che c'invita esattamente a non fare meno di quello che potremmo fare. O non scamperemo a noi stessi.