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L'uomo nero: l'amore ritorna

Rubini gira il suo decimo film e torna (di nuovo) alle origini e alla retorica delle radici.
di Marzia Gandolfi

Andare a Sud
Sergio Rubini (64 anni) 21 dicembre 1959, Bari (Italia) - Sagittario. Regista del film L'uomo nero.

lunedì 30 novembre 2009 - Incontri

Andare a Sud

Dopo aver rinunciato alla Puglia, spostandosi a Roma e servendo la vendetta (d’amore) nei panni di un autorevole critico d’arte e ai danni del talentuoso scultore di Riccardo Scamarcio, Sergio Rubini torna alle radici e a quella dimensione arcaica e misteriosa che ha innervato alcune delle sue opere più belle. Lontano dalla città e nella profonda provincia pugliese si consuma la vita e il sogno di Ernesto Rossetti, capostazione con velleità artistiche. Ispirata da Cézanne e umiliata da un critico d’arte locale e trombone, la vita “artistica” di Ernesto è osservata con stupore e raccontata con nostalgia dal figlio Gabriele. Nella doppia veste di regista e interprete, Sergio Rubini presenta a Roma il suo nuovo film, che ancora una volta va a sud e fa i conti con la tradizione dei generi (commedia in primis). La terra

Sergio Rubini: lo spunto per girare L'uomo nero nasce da un ricordo dell'infanzia: la memoria di un macchinista che lanciava caramelle ai bambini lungo i binari. Sono perciò partito da quell'immagine e dalla voglia di tornare a lavorare con Domenico Starnone con cui condivido un padre ferroviere e pittore. Ci siamo seduti a tavolino e abbiamo messo insieme pezzi della nostra storia personale. All'inizio temevamo che potesse venirne fuori un racconto sfilacciato e confuso, più tardi, al contrario, che ci fosse invece troppa trama e che quest'ultima avrebbe finito per soffocare il clima e il sapore del film, che era la cosa che ci stava più a cuore. A volte penso di non poter fare a meno di tornare a me stesso e se uno non torna a se stesso che cosa racconta? Io e la critica

Sergio Rubini: dopo aver mostrato il mio film alla stampa mi sono reso conto, con un certo stupore, che sono stati in molti a pensare che anche questa volta avessi voluto affrontare, come nel mio film precedente (Colpo d'occhio), la relazione artista-critico. Non è così. Venusio e Pezzetti nell'Uomo nero rappresentano piuttosto il pregiudizio e l'immobilismo meridionale, loro vorrebbero che tutto rimanesse così com'è. Sono fondamentalmente due disperati che come Ernesto Rossetti vorrebbero essere altrove, magari a Roma a scrivere critiche su Guttuso. Personalmente con la critica ho un rapporto speciale, in fondo per anni mi sono sentito più attore e "prestato" alla regia, per questo motivo leggevo attentamente quello che veniva scritto sui miei film, mi era utile per rivedere certi dettagli, per capire meglio cosa potesse essere migliorato. Ho spesso delle relazioni con alcuni critici senza che loro nemmeno lo sappiano, il mio rammarico purtroppo è di non poter leggere tre pagine di critica sul mio film e di dovermi fare un'idea del pensiero e del giudizio di un critico attraverso le stellette e in poco meno di venti righe. Provare

Valeria Golino: avevo già lavorato due volte, e felicemente, con Sergio e desideravo ripetere l'esperienza perché lui è un regista irresistibile. Una delle cose che adoro di lui è che ci faccia provare prima di girare. Fare le prove è un privilegio che il cinema ormai si concede raramente e invece è importante perché ci si chiarisce le idee sul proprio personaggio, sul film, sulla storia che racconta. Sergio è un grande direttore di attori, un uomo che trasmette una grande energia e una tensione artistica a cui è impossibile sottrarsi. Con lui è sempre una sfida e questa volta mi ha costretta a recitare in un modo che non mi appartiene, io di solito tendo a proteggermi levando, Sergio invece mi voleva più piena, più teatrale. Durante le riprese mi ha assicurato che non sarei mai risultata ridicola, così l'ho seguito e adesso sono felice di averlo fatto. La seconda volta

Riccardo Scamarcio: mi sono subito innamorato del mio personaggio, così libero e dissacrante e poi desideravo tornare a lavorare con Sergio e questa volta potevo addirittura farlo nella mia "lingua". Mi piacciono i dialetti e sono convinto che non debbano andare perduti. In Puglia tutti lo parlano ancora, io stesso, quando sono al telefono con i miei amici, mi esprimo ancora nella forma dialettale, è come una specie di codice. Mi è piaciuto allora muovermi in questa lingua e il mio Pinuccio non avrebbe potuto esibire meglio la sua spavalderia se non attraverso il dialetto pugliese.

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