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L'uomo che verrà: Miracolo a Marzabotto

Il regista de Il vento fa il suo giro porta a Roma l'eccidio di Monte Sole.
di Edoardo Becattini

I sommersi e i salvati
Giorgio Diritti (64 anni) 21 dicembre 1959, Bologna (Italia) - Sagittario. Regista del film L'uomo che verrà.

mercoledì 21 ottobre 2009 - Incontri

I sommersi e i salvati
Soltanto un anno fa, la militanza di Spike Lee si è addentrata nelle pagine dolorose della storia italiana per raccontare la fucilazione di massa di 560 civili di Sant'Anna di Stazzema ad opera dei reparti nazisti. Il progetto (Miracolo a Sant'Anna) nutriva tuttavia come visibile interesse principale non tanto quello di raccontare la strage italiana, quanto quella dei soldati neri di fanteria mandati al macello sulle Alpi Apuane. Al di là degli Appennini, solo un mese dopo Sant'Anna, un altro eccidio venne compiuto con simili, tragiche e terribili modalità: la strage di Marzabotto. Giorgio Diritti, regista di formazione olmiana, legge quel rastrellamento di massa compiuto fra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 dal punto di vista della gente del territorio. Braccianti che parlano un bolognese antico, quasi estinto, e che hanno volti su cui si leggono le pieghe del tempo e della fatica. Persone che non concepiscono la guerra semplicemente perché la guerra è qualcosa di innaturale, di improprio per l'uomo. Dopo l'insospettabile quanto meritato successo de Il vento fa il suo giro, Diritti si conferma regista dello spirito di comunità: inteso come gruppo linguisticamente e antropologicamente riconoscibile e come ideale culturale di pace e condivisione.

Quanto hanno influito le memorie dei sopravvissuti?
Giorgio Diritti: Sicuramente l'apporto delle vicende umane e della dimensione emotiva dei resoconti è stato fondamentale al processo di scrittura. A questo proposito, il film cerca elaborare il lungo e doloroso percorso di sofferenza che un evento del genere può costituire e in ogni personaggio o situazione c'è in fondo molto delle persone che ho incontrato. L'eccidio di Monte Sole è una vicenda che aveva necessità di essere raccontata: non per coloro che la vicenda l'hanno vissuta e che soffrono ogni volta che questa riemerge, ma per tutte le generazioni successive e anche per quelle future. D'altronde l'educazione fa parte dello sviluppo virtuoso di una società, dell'evoluzione della cultura. La mia speranza è che fra molti anni si abbia orrore delle guerre così come oggi lo si ha del cannibalismo.

Da cosa deriva la scelta del dialetto?
G. Diritti: La decisione di girare in bolognese antico è una scelta che abbiamo preso definitivamente solo poche settimane prima dell'inizio delle riprese ma che fa parte fa parte di un mio personale progetto di coinvolgimento emotivo e di realismo da istituire con lo spettatore del film. Il dialetto dà un sapore emotivo che l'italiano ha perso.

Maya Sansa: Per parlare il bolognese antico di quei luoghi, noi attori abbiamo ricevuto una preparazione molto accurata da parte di un fantastico insegnante, Giorgio Monetti. L'apporto fondamentale di Monetti è stato quello di aiutarci a restituire una lingua per noi in fondo straniera. E di conferire una musicalità, un timbro e una particolare emozione alle nostre parole. Ci sono dei particolari riferimenti pittorici nel film?
G. Diritti: Il lavoro sull'estetica si è sviluppato inizialmente da una serie di scatti dell'epoca appartenenti all'archivio della Cineteca di Bologna. Poi siamo passati a studiare alcune foto a colori scattate dai soldati americani e varie rappresentazioni sia pittoriche che fotografiche della campagna italiana fra Ottocento e Novecento. Ma al di là di questa ricerca, devo dire che sono sempre piuttosto istintivo quando giro una scena e non ho particolare interesse a ricreare dei riferimenti precisi.

Come si rappresenta il nazismo?
G. Diritti: Bisogna considerare che la rappresentazione del film parte dalla realtà dei fatti. Fatti raccontati direttamente da quelle persone che hanno vissuto in quel modo quella tragedia. Il fatto che per quei nazisti non ci fosse alcuna differenza fra uccidere un animale o un uomo non è il ritratto crudele e spietato del nostro immaginario, ma il riflesso di una condizione psicologica che riguarda soprattutto i giovani nazisti, educati fin dall'infanzia ad un'ideologia di questo tipo. Ho comunque cercato di integrare tutti questi elementi reali prelevati dai racconti dei sopravvissuti con una rappresentazione che ricercasse una volontaria distanza dalle canoniche rappresentazioni dei nazisti e dei soldati delle SS.

Potrebbero esserci polemiche sulle responsabilità dei partigiani?
G. Diritti: Non credo. Semplicemente perché quello che il film racconta si basa su resoconti storici accurati e documentati. Racconta qualcosa che va al di là di ogni possibile revisionismo: racconta che la guerra porta le persone a modificarsi. Nell'evolversi delle cose ci trasformiamo anche in modi incoerenti rispetto a quello che siamo e questo riguarda il fatto che spesso ci troviamo a che fare con situazioni inafferrabili, ingiustificabili. Molti dei quei partigiani erano sprovveduti e praticamente disarmati. Nessuno di loro avrebbe mai potuto immaginare che i tedeschi avrebbero fatto qualcosa di così mostruoso. Sono situazioni estreme in cui emergono le paure e le reazioni più impensabili per l'animo umano.
Non concepisco il revisionismo storico, da parte mia c'era la volontà di raccontare un episodio terribile della storia di un territorio concentrandosi sugli affetti familiari e sulle piccole ritualità dei suoi abitanti. Persone che subiscono qualcosa di esterno, perché la guerra è qualcosa di esterno al processo evolutivo dell'umanità, è qualcosa che contro al progetto di una cultura come convivenza civile. Come hanno lavorato gli attori
Alba Rohrwacher: Se Giorgio ci ha scelto penso l'abbia fatto perché ha letto in noi una possibilità di poter trasformarci anche fisicamente in quei personaggi. Si è trattato di un processo in cui, oltre all'apprendimento del dialetto e della melodia di quelle parole antiche, ha avuto un peso fondamentale il lavoro sul trucco, sui capelli, sui vestiti. Era l'unico modo per poterci inserire con armonia nello spirito del tempo e in questo gruppo di attori molto più vicini al territorio.

Maya Sansa: Soprattutto è stato molto importante saperci sporcare, assumere le sembianze delle persone del tempo, che erano lavoratori molto poveri che vivevano di vestiti arrangiati. Anche il luogo dove abbiamo girato è stato fondamentale: un agriturismo gestito da una donna molto legata alla sua terra, alla sua natura, molto energica, che ci ha permesso di condividere uno spirito di comunità.

Claudio Casadio: Per me la storia di Marzabotto ha un valore particolare. La mia famiglia è una famiglia di braccianti romagnoli per i quali la strage di quei civili ha sempre rappresentato uno degli esempi più concreti delle grandi tragedie della guerra. Nella mia vita lavoro soprattutto in teatro e nel passaggio al cinema la prima chiave doveva essere la sottrazione. Con questa idea di sottrazione sempre in mente, ho poi dato due diverse identità al mio personaggio: Armando. Nella prima parte è un lavoratore duro, un buon padre e un buon marito d'altri tempi. Nella seconda diventa l'incarnazione del dolore dei sopravvissuti, portatore di una sofferenza che non riesce a sopportare.

Greta Zuccheri Montanari: Quando il regista mi ha detto che non dovevo parlare, non mi sono stupita troppo. Mi sembrava normale non parlava data la mia scarsa esperienza. Ammetto che ogni tanto però mi veniva da parlare o anche da cantare, come faccio nel finale del film, anche solo per esprimere un pensiero, una solitudine…

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