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5x1: Salvatores e quattro amici al bar

Il regista è l'ideologo della fuga cinematografica.
di Stefano Cocci

Il regista della fuga
Gabriele Salvatores (73 anni) 30 luglio 1950, Napoli (Italia) - Leone. Regista del film Come dio comanda.

martedì 9 dicembre 2008 - Celebrities

Il regista della fuga
Nato a Napoli, Gabriele Salvatores è cresciuto culturalmente e professionalmente a Milano, lontano dai set cinematografici ma su quelli teatrali. Fu questa esperienza a costituire l'ossatura di una poetica e l'elemento fondamentale per un bagaglio di esperienze ed amicizie che saranno la costante dei suoi inizi.
Il successo arriva con quella che a posteriori è possibile considerare la trilogia della fuga: Marrakesh express, Turnè e Mediterraneo. Il viaggio, il tour teatrale o una semplice sosta in un'isoletta greca, mentre nel mondo divampa la guerra, sono la primaria forma di espressione di un artista che critica il mondo che lo circonda e lo fa attraverso il nucleo di conoscenze e riferimenti che lo proteggono: gli amici di sempre, che vuole insieme a sé in queste prime esperienze. Attori come Abatantuono, Bentivoglio, Alberti, Cederna, sono tutte facce delle personalità di Salvatores e, in sostanza, sono la sua famiglia artistica. Con il tempo, e soprattutto dopo l'Oscar a Mediterraneo, la prosa di Salvatores si arricchisce. Il viaggio diventa fuga in avanti, anche nel futuro, con Nirvana, prima dello sbarco verso i lidi esplorati da Niccolò Ammaniti nei suoi romanzi. Infatti, dopo Io non ho paura del 2003, Salvatores porta nelle sale del Natale 2008 una favola nerissima: Come Dio comanda, la storia oscura di un padre disagiato e del suo forte rapporto con il figlioletto.

Mediterraneo
È stato il film che fece gridare alla rinascita del cinema nazionale e soprattutto della "commedia all'italiana". Il racconto di un gruppo di soldati italiani che, nel 1941, stabiliscono un presidio su un'isoletta dell'Egeo e presto dimenticano di essere in guerra per iniziare una tranquilla vita di isolamento, è l'espressione di una generazione che ha perso le sue coordinate mentre il secolo sfuma e le ideologie muoiono. Ancor di più, è la rinascita di un genere cinematografico, quello che ha fatto grande l'Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, e che ritrova un proprio lessico alla fine del XX secolo, rifugiandosi nell'apologia della fuga, del viaggio e dell'isolamento, nel cuore di un piccolo gruppo di amici. Una risposta alla perdita di riferimenti politici e culturali e che, d'altra parte, ha dato il via alla cosiddetta poesia della partita a pallone sulla spiaggia che ritroveremo in quasi tutti i film che, volenti e nolenti, si richiamano alla stessa tradizione.

Io non ho paura
Gabriele Salvatores ha sempre avuto una certa confidenza con gli adattamenti da romanzi e racconti, fin dai tempi di Puerto Escondido (tratto da un lavoro di Pino Cacucci). Nel 2003 decide di confrontarsi con uno degli autori di maggior successo in Italia, quel Niccolò Ammaniti che, oltre ad essersi costruito una certa fama, ha anche collezionato una serie di collaborazioni cinematografiche: da L'ultimo capodanno fino a Il siero della vanità.
È la storia di un rapimento, di disperazione e rabbia, è il racconto di due bambini e non è casuale che Salvatores sostanzialmente si ritrovi come artista nel momento in cui abbandona i tentativi di genere e cerca di recuperare la cifra essenziale della sua professione: il racconto. Dietro a ciò, si perdono tutte le esigenze di grammatica e finalmente ritrova la forza di emozionare.

Quo vadis, baby?
Se c'è un merito riconducibile a Gabriele Salvatores, al di là di quelli meramente artistici, è di aver almeno provato a elaborare una grammatica di genere. Dopo aver contribuito, in maniera determinante, a codificare la poetica della "commedia all'italiana" sul finire del XX secolo ed avergli dato nuova linfa; dopo aver provato a dare una dimensione industriale al cinema italiano e comporre il primo film di fantascienza del Bel Paese con Nirvana; dopo aver tentato di percorrere le strade del grottesco con Denti; dopo tutto questo, Salvatores ha cercato, ed in parte è riuscito, a codificare il thriller noir italiano per il XXI secolo con una cantante sboccata che si trasforma in investigatrice (Angela Baraldi) e l'uso della tecnica digitale che appiattisce la fotografia ma che, almeno, rappresenta un tentativo disperato di rianimare un genere che, nel nostro Paese ad eccezione di Dario Argento, ha faticato a trovare una sua dimensione.

Amnèsia
Ancora Abatantuono, ancora Rubini, ancora un mondo in cui nessuno è contento. La vita di un produttore porno è sconvolta dalla figlia diciassettenne che decide di andare a stabilirsi da lui sull'isola di Ibiza. Potrebbe essere considerato il capitolo finale ma non conclusivo della storia tra Salvatores e Diego Abatantuono, probabilmente l'attore che, più di tutti, ha un debito di riconoscenza verso il regista. Trascinato fuori dal pantano dei personaggi alla "ras del quartiere" è con Salvatores che Abatantuono trova la sua dimensione più completa, lanciando nell'universo cinematografico italiano. Con Amnèsia, la personalità dell'attore diventa trasbordante rispetto alla prosa di Salvatores, diventando il limite del film che non riesce a liberarsi di questa inconciliabile dicotomia.

Nirvana
Il primo film di fantascienza italiano è datato 1997. Due anni prima c'era stato Strange days, due dopo Matrix, mentre quasi contemporaneamente uscì Il quinto elemento di Luc Besson. In comune con la pellicola francese c'è il tentativo di produrre un qualcosa che sia vendibile in altri mercati, non solo dentro i confini nazionali. Però, se la cinematografia d'oltralpe è sempre stata pronta a sbarcare con grandi produzioni al di là dell'Oceano Atlantico, quella italiana dimostra tutti i suoi limiti di provincialismo, con una storia di natura fortemente derivativa e debitrice da gran parte della letteratura di genere. Resta il tentativo, onorabile, di fare anche in Italia qualcosa di diverso dalla classica commedia che si muova tra due poli: Vanzina e, appunto, Salvatores.

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