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The Millionaire: non per soldi ma per amore

Reduce dal successo di Toronto, Danny Boyle racconta a Roma il suo millionaire.
di Marianna Cappi

Da Toronto con furore
Danny Boyle (Daniel Boyle) (67 anni) 20 ottobre 1956, Manchester (Gran Bretagna) - Bilancia. Regista del film The Millionaire.

venerdì 28 novembre 2008 - Incontri

Da Toronto con furore
Per il suo ospite d'onore inglese, il regista Danny Boyle, Roma prepara una pioggia torrenziale ma anche un caldo applauso, in occasione della proiezione stampa, che s'intona al coro del pubblico del festival di Toronto che ha incoronato The Millionaire (Slumdog Millionaire) miglior film. Ottava pellicola del regista di Trainspotting, il film trae spunto dalle pagine del romanzo di Vikas Swarup "Dodici domande" e vede il giovane Jamal (Dev Patel) ripercorrere le tappe della sua rocambolesca esistenza mentre siede di fronte al conduttore di un quiz show e rischia di vincere 20 milioni di rupie...

Come ha conosciuto il romanzo e perché ha deciso di trarne un film?
Ho letto la sceneggiatura prima del romanzo. Mi avevano detto che era un film su Chi vuol essere milionario? e io non avevo alcuna intenzione di fare un film su un gioco televisivo ma la sceneggiatura era stata scritta da Simon Beaufoy, l'autore di Full Monty, che è un film che io amo molto, per cui l'ho letta volentieri. Dopo 10 pagine ho pensato che dovevo fare questo film, perché racconta Bombay e tutte le sue meraviglie e io, che non ero mai stato in India, ho sentito il bisogno di iniziare quest'avventura.

Il film ricalca il modello delle pellicole di Bollywood. Mira tanto al pubblico americano che a quello indiano?
Il film ha ottenuto un successo incredibile in America, non me lo aspettavo ma forse c'è una spiegazione: è il racconto di un sogno; il sogno di un ragazzo di ritrovare il suo amore d'infanzia, e questo piace al pubblico di ogni dove. Inoltre, Bollywood ha sempre stimato Hollywood, ne ha sempre amato i film e le stars, ma ora, sempre più, è Hollywood ad interessarsi a Bollywood. Quest'anno la Disney produrrà il primo film d'animazione totalmente in lingua hindi, per esempio, e, nell'anno in cui ho vissuto in India, ho visto due volte Will Smith venire per un incontro di lavoro e Los Angeles-Bombay non è un viaggetto da poco. C'è un interesse crescente, è un fatto.

I recenti fatti di sangue a Bombay le suscitano qualche riflessione?
Sono molto rattristato per quel che è accaduto. Mi sono messo subito in contatto con il cast e la troupe per avere la certezza che loro e le loro famiglie stessero bene e per fortuna così è. Bombay, per quanto sovraffollata e trafficatissima, è una città anche molto calma e tranquilla, poi però, come in altre metropoli, accadono queste cose sconvolgenti. L'anno prima che girassimo c'era stato il terribile attentato al treno. Quello che più mi ha scioccato è stato vedere che gli attentatori hanno aperto il fuoco sulla folla della Victoria Station, che è il cuore pulsante di vita della città, dove passano solo indiani e nessun turista. Nel bene e nel male, Bombay è la città degli eccessi: eccesso d'amore e eccesso di violenza.

Nel film compare brevemente Shah Rukh Khan, il divo di Bollywood. Come mai lo ha voluto?
È la star delle star, un mix di De Niro e Al Pacino, ci sono folle adoranti al suo cospetto, anche se oggi è un po' invecchiato. È l'emblema del cinema di Bollywood, quando è stato male la gente pregava di poter soffrire al suo posto. L'ho voluto per poter mettere insieme, nella stessa scena, i due estremi della città: da una parte il livello più basso, gli escrementi, del cui odore è impossibile liberarsi perché non esistono fognature, e dall'altra parte il dio in terra, Shah Rukh Khan.

Lei cambia genere ad ogni film. Come motiva questa scelta artistica?
Ho una teoria: il primo film di un cineasta è sempre il migliore. È il caso dei fratelli Coen e di Blood Simple o di Soderbergh e Sesso, bugie e videotape. È normale, si è meno esperti ma più autentici e più appassionati. Se non cambi diventi un tecnico, bravissimo ma pur sempre un tecnico. Per questo io passo dalla fantascienza all'India: di nessuna delle due cose sapevo nulla per cui le approccio da neofita.

Quanto l'ha toccata l'esperienza indiana?
Gli hippies dicevano che l'India ti cambia la vita e avevano ragione, anche se io mi sono sempre considerato un punk e non amo molto gli hippies. Però l'India è così, una contraddizione continua e devi abbracciarla, non ha senso tentare di risolverla. Il bello, anzi, è proprio che gli estremi coesistono, che le baracche sono in pieno centro, ad un passo dai grandi palazzi, e nessuno tenta di rimuoverle. Tutti sono vicini l'uno all'altro, questo mi ha commosso. Sono un regista migliore, credo, dopo questo film. In teoria, il lavoro del regista è quello di tenere tutto sotto controllo, provare, modificare, rifare, ma tutto questo là non si può fare eppure le cose funzionano magicamente da sole. Tutti amano il cinema e vorrebbero recitare.

Come ha trovato i tre bambini? È vero che provengono da una baraccopoli?
Sì, è vero. All'inizio la sceneggiatura era scritta in inglese ma ci siamo accorti che, nonostante la maggior parte della gente parli quel meraviglioso ibrido che è l'hinglish, i bambini di sette anni non lo conoscevano, per cui abbiamo tradotto la prima parte del copione e così abbiamo scoperto dei bambini straordinari che, pur proveniendo dagli slums, hano visto mille film nei dvd piratati e conoscono tutte le mosse degli attori. L'inizio, ora, in hindi con i sottotitoli, dà grande realismo alla favola che raccontiamo.

Una scena del film richiama quella famosa del bagno di Trainspotting, l'ha fatto apposta?
Vedete, noi inglesi siamo ossessionati dai bagni, più di qualsiasi altro popolo. Nei film inglesi ci sono sempre scene ambientate in bagno, qui ce ne sono almeno tre. Però quella del ragazzino nel bagno all'aperto era molto importante perché racconta il personaggio, cosa è capace di fare per ciò a cui tiene molto.

La colonna sonora è parte integrante del film. Che cosa ha chiesto alla musica?
Ho voluto A. R. Rahman, che tra gli indiani è famoso quanto Michael Jackson a suo tempo. Non può scendere dalla macchina, in patria, e anche a Londra la gente lo riconosce per strada. Ha venduto quanto i Beatles e i Rolling Stones perché, anche se i suoi cd non costano molto, vengono acquistati da milioni di persone. Gli ho chiesto di fare esattamente quello che fa la musica indiana contemporanea, ovvero una fusione di generi, che contempla tanto la musica tradizionale col sitar che le canzoni di Bollywood, il rap e l'hip hop e la musica house europea. In cambio gli ho promesso che l'avrei utilizzata ad alto volume: loud and proud.

Questo è il film più melodrammatico della sua filmografia. Ha subito l'influenza della cinematografia indiana anche in questo senso?
Sicuramente sono stato influenzato da Bombay, che è una città drammatica e melodrammatica, un vero e proprio cuore aperto. Se sia stata Bombay ad influenzare Bollywood o viceversa è difficile da dire, è come chiedersi se è nato prima l'uovo o la gallina. Per me che sono inglese questo è il massimo del mélo che posso permettermi ma, naturalmente, per gli indiani il film non lo è abbastanza.

Già in Millions erano presenti due fratelli e un premio in denaro, qui è la stessa cosa. Come lo spiega?
Forse perché io sono un gemello, anche se la mia gemella è una donna; o forse perché credo che per fare un bel film ci vogliano, non come diceva Godard "una donna e una pistola", ma "una bella ragazza e tanti soldi".

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