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La doppia vita di Lindsay Lohan

Uscirà direttamente in dvd, senza passare per le sale, Il nome del mio assassino, vincitore del Razzie Award.
di Marianna Cappi

Dalla commedia adolescenziale all'horror

mercoledì 30 luglio 2008 - Approfondimenti

Dalla commedia adolescenziale all'horror
Il nome del mio assassino riporta sullo schermo Lindsay Lohan per farla letteralmente in pezzi. Nella finzione, l'attrice è Aubrey Fleming, studentessa con la passione della scrittura ed eccellente pianista, che scompare una notte dalla sua tranquilla cittadina, da poco sconvolta dall'apparizione di un perverso serial-killer. Si teme il peggio e così è, ma, a differenza delle precedenti vittime dell'assassino, Aubrey viene ritrovata viva, anche se orrendamente mutilata e decisamente non "in sé". Sostiene, infatti, di chiamarsi Dakota Moss e di fare la spogliarellista. È solo confusione post-traumatica o c'è del vero in quel che dice? Possibile che al posto di una ragazza ce ne siano due? Di certo, negli ultimi anni, la Lohan ha già dato prova di saper egregiamente sdoppiare se stessa, o almeno l'immagine che fornisce di sé: brava ragazza sul set - enfant-prodige della scuderia Disney, reginetta dei film per ragazzi con Mean Girls, voluta niente meno che da Robert Altman per il suo ultimo film, Radio America - fuori dagli studios si fa notare per guida in stato d'ebbrezza, possesso di droga e "cattive" compagnie, quali Paris Hilton. Tuttavia, a voler ben guardare, filmografia e biografia mostrano dei punti di tangenza, lette sotto questa luce maliziosa: non a caso, a portarla alla ribalta, è stata la pellicola Disney Genitori in trappola (remake del meraviglioso Il cowboy con il velo da sposa), nel quale la Lohan interpretava in maniera eccellente una coppia di gemelle, identiche ma dal carattere opposto, che si alleano per riunire i genitori avviati al divorzio. Ancora una volta: una Lindsay e due personalità.

See Lindsay Die
Sfortunatamente, Il nome del mio assassino rischia di fare a pezzi non solo il corpo della rossa ninfetta ma anche la sua carriera, e qui il problema si fa serio perché esula dalla scena e sconfina nella realtà. Investito negli Stati Uniti da una pioggia di Razzie Awards, il film del giovane Chris Sivertson si aggiudica, tra gli altri, anche quello per la peggior attrice protagonista, andando a ledere la credibilità professionale della Lohan, che fino ad ora era rimasta dignitosamente intatta. Ma c'è di più. Ancora una volta, la sua presenza sullo schermo in un film così prepotentemente "di genere" e la curiosità morbosa della stampa e dei gossip-addicted nei confronti della protagonista, potrebbero trovare un punto d'intersezione. Commercializzato come un thriller, l'opera di Sivertson è in realtà più vicina al filone del gore e del film d'exploitation (nomen omen), tutto sesso e sangue, all'interno del quale si può ritagliare un sottogenere che si diverte a torturare le stars, per il piacere (perverso) di mettere in estrema difficoltà chi si ipotizza che le difficoltà non le conosca affatto. Chi non ricorda la campagna stampa de La Maschera di cera, che invitava a veder morire Paris Hilton? Sembra che le due amiche nella vita, entrambe già finite dietro le sbarre e poi sbattute in prima pagina, non se la passino tanto meglio nei film, dove ci si accanisce sui loro corpi senza risparmio. Urge "centro di riabilitazione" della carriera.

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