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Il diario di Jack: la scrittura dell'io in Hollywoodland

Dopo aver diretto Gone Baby Gone, Ben Affleck torna attore romantico e redige un diario segreto nella Città degli Angeli.
di Marzia Gandolfi

Caro diario

giovedì 3 luglio 2008 - Approfondimenti

Caro diario
Il cinema nel corso della sua storia ha redatto un numero imprecisato di diari, da quello segreto del "curato di campagna" di Bresson a quello scandaloso di Judi Dench, passando per quello "antropologico" della tata di Scarlett Johansson fino a quello pasticciato della Bridget Jones di Renée Zellweger. La pratica del diario non poteva sfuggire al cinema e in particolare ai suoi affabulatori, gli sceneggiatori, che ne hanno fatto una delle tante tecniche di racconto impiegate per organizzare una narrazione e per romanzare una vita. Questa volta tocca all'agente di star hollywoodiane, Jack Giamoro, impegnarsi nell'esercizio della scrittura. Jack, tradito dalla biondissima moglie, oberato dal lavoro e da un padre malato, ha bisogno di fermarsi, di cercarsi e di darsi un senso. Consigliato dal pedante Dottor Primkin, si decide a tenere un diario segreto in cui annotare la sua autobiografia e in cui custodire ogni ricordo e ogni pensiero nato nella quotidianità e nella successione delle sue osservazioni e delle sue riflessioni. Neanche a dirlo, la scrittura intima di Jack verrà rubata e condivisa da una giornalista d'assalto e sceneggiatrice frustrata, che vorrebbe tanto pubblicare e trasformare in "storia" gli eventi personali della sua esistenza. Ottima l'idea del film, dichiarata meglio dal titolo originale, Man about Town, di fare dialogare due modalità differenti di impiego del diario: il diario come momento soggettivo e il diario come strumento di indagine oggettiva. Da una parte un uomo in crisi vuole conoscersi attraverso la pratica diaristica, dall'altra lo stesso uomo è inserito nella Los Angeles degli studios hollywoodiani, che la scrittura diaristica permette di ricostruire. Peccato però che il regista Mike Binder non riesca a superare i confini angusti dell'intimità forzata del suo protagonista, mutando il diarismo in una forma sociale di osservazione. Tralasciando la ricerca critica e, perché no, sarcastica dei meccanismi e delle pratiche produttive di Hollywood, Binder non si preoccupa di indicare allo spettatore gli aspetti criticabili o esecrabili dell'ambiente. Discorrendo di autori televisivi e sceneggiatori cinematografici, Il diario di Jack avrebbe potuto essere una caustica caricatura dell'industria dello spettacolo, mettendo in evidenza i tratti salienti del soggetto che andava a deformare: un testo rivelatore del proprio sottotesto. Così non è stato. Lo slancio eversivo resta in punta di penna. La pratica diaristica puro solipsismo.

Piovuto dal cielo
Se Armageddon lo ha imposto all'attenzione dei media e del pubblico, è stato il suo volo eroico e precipitato nella Manica nel kolossal Pearl Harbor a consacrarlo attore sex symbol. Eppure Ben Affleck è gradevole ma non bello, ha la mascella netta e sicura di sé ma non ha tratti di una originalità indissolubile alle mode e alle statistiche, non ha niente che lo distingua dagli altri giovanissimi colleghi, non è troppo alto né troppo basso e il suo fascino è praticamente innocuo. Ottimo produttore di giovani talenti, abile sceneggiatore e soggettista, Affleck è invece un attore "alla buona", ordinario, accessibile e possibile. Almeno fino ad Hollywoodland, dove approda dopo essere stato uguale, riconoscibile e perfettamente aderente alle aspettative in ogni blockbuster o produzione indipendente interpretata. Le cose non vanno meglio fuori dallo schermo: giovane, carino e molto occupato sbaglia due volte fidanzata (Gwyneth Paltrow e Jennifer Lopez), sfinendoci con i suoi trascorsi sentimentali, le dichiarazioni entusiaste sulla madre e l'edificante storia del padre alcolizzato che ora è sobrio. Tuttavia, dopo avere interpretato il Superman amaro e crepuscolare della DC Comics, stretto nella tuta bianca e nera della tv degli anni Cinquanta, Ben Affleck smette di essere il bravo ragazzo della porta accanto e di incarnare quella bellezza media dal talento medio innalzata agli altari della gloria. Blasonato di una Coppa Volpi a Venezia, interpretando George Reeves, lo sfortunato e massiccio Superman televisivo di Allen Coulter, l'attore di Berkeley, cresciuto a Boston, è straordinariamente bravo e il declino del suo personaggio assimilabile al suo. Precipitato da un cielo di stelle, dissolto il sorriso bianco e abbagliante e abbandonato dalle fidanzatine gatte morte che furono, Ben Affleck si rialza e torna al cinema e alla vita come l'aviatore volontario di Pearl Harbor. Si ricostruisce una carriera di attore romantico ma soprattutto impagina asciutto Gone Baby Gone, un thriller morale e classico di identità distrutte e di rivelazioni che non vogliono venire allo scoperto, in cui la cui volontà di riparare un torto genera puntualmente nuovi arbitrii. Forse il ragazzo in action di Michael Bay è cresciuto. Ben non è più noioso e saputello, adesso tiene un diario per aprire sentieri inesplorati e inattesi, si fa spaccare i denti perfetti, sbaglia, inciampa e non rompe più le scatole per avere la nostra attenzione.

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