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La famiglia Savage e la malattia del cinema

Vita, solitudine e morte di una famiglia per bene.
di Pierpaolo Simone

La malattia del quotidiano

mercoledì 23 gennaio 2008 - Approfondimenti

La malattia del quotidiano
Si intitola La famiglia Savage: è la nuova pellicola della promettente Tamara Jenkins e ha aperto lo scorso Festival di Torino sotto la direzione di Nanni Moretti. Una saga famigliare, un improvviso e repentino cambiamento di abitudini quotidiane e sedimentate per lasciar spazio all'imprevisto, alla malattia, alla speranza. Wendy (Laura Linney) e Jon (Philip Seymour Hoffman) sono fratelli, autosufficienti e proiettati sulle loro vite, si ritrovano da un giorno all'altro a prendersi cura di un padre – troppo presto dimenticato – colpito da una forma piuttosto grave di demenza senile. Inizia così un giro nell'inferno quotidiano delle case di riposo, dei sensi di colpa, dell'effimera velocità con cui scorre ogni vita, tralasciando per un attimo la propria, passata fra lezioni sull'umorismo nero di Bertolt Brecht e la scrittura di commedie teatrali. Tamara Jenkins – già apprezzatissima per il precedente L'altra faccia di Beverly Hills (1998) – torna alla regia con una produzione di Alexander Payne, cimentatosi con il tema della vecchiaia con A proposito di Schmidt, interpretato da Jack Nicholson. Si può dire di tutto di questa famiglia Savage: nevrotica e acculturata, moderna ed egoista, vittima di un sistema che ha lentamente divorato se stesso. Pellicola autobiografica, un'alchimia di neorealismo a tinte fosche ed esistenzialismo – parola che serve a giustificare lo scorrere amaro della vita - che ha convinto festival come Toronto e il Sundance.

L'alibi della storia
Dall'undici settembre in poi, il cinema americano sembra aver costruito uno spartiacque – così come in politica – che separa le lavorazioni precedenti dalle successive. Ma - come accadde per la fine di Hollywoodland - anche nel cinema indipendente della Jenkins si respira un tentativo di emanciparsi dalle rozze categorizzazioni del post attentato, ragionando sulla propria pelle e sul proprio vissuto. Ed è in una battuta in cui Wendy-Linney confessa di aver usufruito di un fondo destinato alle vittime dell'attacco alle torri che si schiude una delle tantissime chiavi di lettura del film. Il respiro del proprio fallimento, la propria viltà, l'alibi eterno che nasconde paure e insicurezze, la morte e l'attesa di un destino che non concede sconti né eccezioni segnano il ritorno a un cinema spontaneo e genuino che chi risorge dalle macerie riesce a confezionare. Nei volti dei fratelli diversamente abitudinari c'è la ricerca di un fine ultimo dell'esistenza, senza abbellimenti e fronzoli, senza quell'estetica del bello che – come ricorda Seymour Hoffman in una delle scene più toccanti della pellicola – serve a sopire i sensi di colpa ma non a far dimenticare che la vita è fatta soprattutto di escrementi e fobie. Un bicchiere mezzo vuoto, insomma, che fa scuola al pessimismo cosmico ma non nasconde una forza (forse sconosciuta) che accresce e rende misteriosamente affascinante l'esperienza del vivere, racchiudendola involontariamente in una fulminante battuta di Woody Allen: "si vive una volta sola, e qualcuno neanche quella".

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