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Sergio Leone

Sergio Leone è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 3 gennaio 1929 a Roma (Italia) ed è morto il 30 aprile 1989 all'età di 60 anni a Roma (Italia).
Nel 1985 ha ricevuto il premio come miglior regia al Nastri d'Argento per il film C'era una volta in America. Dal 1972 al 1985 Sergio Leone ha vinto 3 premi: David di Donatello (1972, 1984), Nastri d'Argento (1985).

Il fiabesco padre dei mitici spaghetti-western

A cura di Fabio Secchi Frau

Protagonista indiscusso della cinematografia italiana e della sua storia. Un uomo, un regista, un narratore. Sergio Leone è stato, a suo tempo, ingiustamente accusato di aver troppo elogiato la violenza nella sua messa in scena. Tutto sbagliato. Il vero intento di Leone era quello di comprendere e far comprendere allo spettatore la vera cognizione del dolore, l'agonia che separa l'attesa dell'uomo da questo stato d'animo e l'accettazione di un destino non sempre intelligibile, ma conosciuto. Le sue storie erano fatte di campi lunghissimi, primissimi piani, di accelerazioni e rallentamenti, di dialoghi scarni e di quel rapporto contraddittorio fra suono e immagine del quale solo lui riusciva a carpirne i segreti. Un uso preordinato della musica e della fotografia, coadiuvavano la sua tecnica in grado di creare un universo autonomo e personale, all'interno del quale anche i silenzi colpiscono (e questa fu una delle prime lezioni che imparò un giovane Dario Argento dal grande maestro), all'interno del quale nulla si svela. Solo certi flashback gradualmente rendono accessibili allo spettatore quei fatali segreti che, sul piano narrativo, mescoleranno il genere nel quale Leone lavorava con le caratteristiche di altri generi, il tutto con una verosimiglianza necessaria. La verosimiglianza. Sergio Leone ne era ossessionato: «...sia pure inserita in una cornice fiabesca. [...] Molti mi hanno definito un autore barocco: ecco, se per barocco si intende una pienezza dei ritmi, di composizione, di emozioni, allora posso anche accettare la definizione». Una composizione, un ritmo e un'emozione che guardava costantemente verso il West, verso l'America, mostrandoci luoghi riconoscibili, ma simbolici. Brulle praterie popolate da eroi immaginari, ma che allo stesso tempo riuscivano a essere più veri del vero. Amati e conosciuti da tutti noi, proprio perché ammantati di quella misteriosa oscurità che Leone aveva infuso nelle loro vite inventate, consapevole del fatto che il cinema era solo una visione. Anzi, era una visione di una sua visione. Un racconto. Una storia che inizia con un antichissimo "C'era una volta...", ma riflette su un senso che fino ad allora era appartenuto solo alle grandi opere letterarie epiche. Colossali mezzi, colossali ambizioni, colossali brutalità, ma anche tutte le suggestioni estetiche di chi vuol fare "solo grande cinema". Da ammirare per la preparazione, la fatica, l'impegno profuso nel rendere la più cruda e realistica possibile la cronaca di stupefacenti viaggi nella memoria, con una vaga seduzione per il mondo onirico. Leone era proprio come i suoi personaggi, come quel Clint Eastwood con poncho e pistola sempre in mano, stretto in un'espressione di abbronzata rigidità facciale, che cavalcavano irruenti non tanto alla ricerca dei dollari, ma indagando sul senso del tempo che tutto "determina, smussa e muta". Dai pistoleri spietati ai gangster che vogliono il guadagno facile e illecito, è un passo brevissimo. Entrambi, del resto, rincorrono la mitologia della loro triste e sanguinaria, ma incredibile, vita. La filmografia di Leone è così: è poesia non facile da comprendere, una lirica sconsolata, amara, bollente che decanta la solitudine al posto di una salda e sincera amicizia, vero punto fermo di un altro grande regista del western: John Ford. Più duttile, più sognatore del collega americano, Leone affronta il mondo con durezza, avidità, concretezza, forgiando sub eroi e anti eroi da venerare. Personaggi che si muovono in un'America insolita e datata, fatta di scorci e colori di qualità, accompagnati dalle colonne sonore di Ennio Morricone. Ed è così che Sergio Leone è entrato nella Storia. In nome di quella sua nostalgia, in nome della memoria tenera e blandita dal rimpianto, fra Proust e lo sguardo di Charles Bronson.

Figlio d'arte
Figlio di Vincenzo Leone, pioniere del cinema muto, conosciuto anche con il nome d'arte di Roberto Roberti e dell'attrice Edvige Valcarenghi, nota con il nome d'arte di Bice Valerian, Sergio Leone, nonostante sia cresciuto nell'odiato e stimato mondo della cinematografia, si avvicina a questa strettamente per lavoro solo verso i 18 anni. In precedenza, era stato un semplice spettatore, come tutti noi, un bambino che rideva delle comiche di Charlie Chaplin e che rimaneva incantato dalla sagacia di Lubitisch. È ancora un bambino quando suo padre lo inserisce come comparsa in un suo film: La bocca sulla strada (1941) con Carla Del Poggio e Franco Coop. Leone dimenticherà l'accaduto, veramente poco interessato a percorrere la strada materna.

Il mestiere di aiuto-regista a Cinecittà
Sceglie invece il mestiere di sceneggiatore e di aiuto regista (a volte firmandosi Rob Robertson, anglofonizzazione del nome del padre), influenzato da opere come Mezzogiorno di fuoco (1952), Il cavaliere della valle solitaria(1953), Vera Cruz (1954), Ultima notte a Warlock (1959) e L'uomo che uccise Liberty Valance (1962). Lavora con Carmine Gallone (Rigoletto, 1946), Mario Bonnard (da Afrodite, dea dell'amore del 1958 con Ivo Garrani fino a Gli ultimi giorni di Pompei del 1959, quando Leone gli subentrò come regista perché una malattia costrinse Bonnard ad abbandonare il set), Mario Soldati, Sergio Corbucci e Primo Zegli. In breve tempo, venne conquistato da quel primo neorealismo di Vittorio De Sica che lo scelse come assistente e comparsa (un seminarista) in Ladri di biciclette (1948), anche se continuò a collaborare con vari registi in film come: Fabiola (1949) con Gino Cervi; Il voto (1950), Milano miliardaria (1951) e La tratta delle bianche (1952) con Sophia Loren (che era ancora una tale Sofia Lazzaro e Scicolone); Il brigante Musolino (1950) con Amedeo Nazzari e Silvana Mangano; L'uomo, la bestia e la virtù (1953) con Totò e Orson Welles. Importante, in questi anni la sua collaborazione con Aldo Fabrizi che ritroverà come regista e attore in: Questa è la vita (1954) di Giorgio Pastina, Mario Soldati e Luigi Zampa con Totò; Hanno rubato un tram (1954) di Mario Bonnard; Mi permette, babbo! (1956) con Alberto Sordi e Il maestro (1957) di Eduardo Manzanos Brochero. Poi vennero gli americani sul Tevere e Leone divenne direttore della seconda unità in numerose produzioni hollywoodiane girate negli studi di Cinecittà: Quo Vadis (1951) con la Loren ed Elizabeth Taylor; Storia di una monaca (1959) con Audrey Hepburn e Peter Finch, passando al capolavoro Ben-Hur (1959) di William Wyler e con Charlton Heston. Dopo gli Stati Uniti, le bellezze francesi - e in particolare quella di Brigitte Bardot che avrà modo di conoscere sul set di Tradita (1954) e Elena di Troia (1956) - e il peplum che aveva il marchio de Nel segno di Roma (1959) di Guido Brignone, Michelangelo Antonioni, Riccardo Freda e Vittorio Musy Glori, con il grande Cervi.

La famiglia Leone
È in quegli anni che Leone mette su famiglia, lo fa con l'adorabile Carla che diventerà madre delle sue due figlie Francesca e Raffaella (entrambe costumiste) e del suo unico figlio, Andrea.

Il debutto cinematografico
Nel 1961, qualcuno gli dà fiducia e gli mette nelle mani la sceneggiatura del suo primo film, un peplum epico-romano con Lea Massari: Il colosso di Rodi. Il film non è un grande successo e così viene retrocesso a assistente regista collaborando con Giorgio Bianchi alla realizzazione di alcune scene del film Il cambio della guardia (1962), con la coppia Fernandel-Cervi, e con l'americano Robert Aldrich come direttore della seconda unità di ripresa di Sodoma e Gomorra (1962), ma storici furono i malintesi, i litigi e le incomprensioni fra i due. Molto meglio andò accanto a Damiano Damiani per Un genio, due compari, un pollo (1975) con Klaus Kinski. Nonostante questo qualcuno punta su di lui per un nuovo peplum (che non sarà mai realizzato) dal titolo Le aquile di Roma. Peccato che a lui non interessi, dato che le sue intenzioni sono quelle di passare ai western.

Il successo di Per un pugno di dollari
Ma questa volta vuole fare le cose in grande (seppur con un budget povero) e prendendo spunto dal film di Akira Kurosawa La sfida del samurai (1961, che è anche uno dei suoi film preferiti) ne realizza il remake italiano servendosi del lavoro di Tonino Delli Colli alla fotografia e di Ennio Morricone alle musiche (i due già si conoscevano perché erano stati compagni di classe nell'infanzia). Arriva nelle nostre sale Per un pugno di dollari (1964) con un leggendario Clint Eastwood che inaugura il filone dello spaghetti-western e introduce quelle che sono le prime caratteristiche del cinema di questo regista: l'uso della soggettiva, l'alternanza in fase di montaggio di sequenze con campi molto lunghi e brevi flash di primissimi piani, ma soprattutto il silenzio, creato fra parentesi di musiche incalzanti e piene di suspense. Il film è un successone, sfortunatamente però Leone viene accusato di plagio da Kurosawa che, vincendo la causa, ottiene come risarcimento i diritti esclusivi di distribuzione del film in Giappone, Corea del Sud e Taiwan, nonché il 15% dello sfruttamento commerciale in tutto il mondo.

La trilogia del dollaro
Nel frattempo, Eastwood e Leone diventano amici così intimi che il grande Clint soprannominerà il regista "Yosemite Sam" e Leone, dal canto suo, lo inserirà ne Per qualche dollaro in più (1965) con Klaus Kinski e in Il buono, il brutto e il cattivo (1966), storia di tre uomini del West alla ricerca di un tesoro nascosto e che chiude definitivamente quella che è considerata da tutti la "trilogia del dollaro" dell'autore, incassando più di 3 miliardi di lire nella stagione 1966-67.

Il primo capolavoro: C'era una volta il West
A questo punto, a Sergio Leone vengono proposti due progetti, entrambi appartenenti al genere western: Caravans, un film ad alto budget negli USA su proposta di Robert O'Brien, presidente della MGM, e Ricordati di Abilene con Jean-Paul Belmondo e Ursula Andress da realizzare con la United Artists. Ma il regista sceglie invece di seguire l'opportunità offerta da un dirigente della Paramount che, dopo il grande successo del suo precedente film, chiede a Leone di realizzare un western interamente ambientato negli Stati Uniti. Leone era intenzionato a chiudere con il genere che lo aveva portato alla notorietà, con l'idea di dedicarsi invece alla messa in scena de C'era una volta in America, ma alla fine decise di accettare, alla luce del fatto che l'idea originale del film era quella di utilizzare un plot hollywoodiano fatto di cliché, riprendendo però alcuni temi frequenti del suo cinema: il massacro di una famiglia, la vendetta legata alla morte di un parente, il potere del denaro che sovrasta quello della pistola. Per fare questo, Leone interpella quelle che saranno due giovani promesse del cinema italiano: Bernardo Bertolucci (che aveva all'attivo già due film) e Dario Argento (che allora lavorava come collaboratore del quotidiano PAESE SERA). Scelti i materiali di partenza e revisionando i classici personaggi del mondo western, si mette in scena quel "balletto di morte" che il regista aveva in mente, iniziando di fatto, una nuova trilogia: la trilogia del tempo. Le riprese cominciano l'8 aprile 1968, con una previsione di circa quindici settimane, per una spesa complessiva di tre miliardi di lire. Le locations furono Cinecittà, Almeria in Spagna e Utah in America, ma solo nella seconda città si costruì una vera e propria cittadina western e il perfezionismo di Leone fu tale che fece prelevare dall'Arizona la sabbia gialla per ricoprire anche le strade ricostruite negli studi di Cinecittà. Persino il treno del film era un autentico treno! Data l'opportunità, Leone si appoggiò a un nuovo linguaggio cinematografico, di derivazione orientale, per il suo stile di ripresa e di narrazione: lentezza, rumori e silenzi, movimenti di macchina particolari e articolari, dilazioni interne alle scene tale che la percezione stessa del tempo ne fosse sensibilmente influenzata e modificata (elemento nuovissimo nella cinematografia rispetto alla tradizionale struttura narrativa che si era soliti usare). Nasce così quel trip malinconico composto da eroi dell'epopee greche che, vestiti da cowboy, si preparavano ad andare incontro al loro tramonto, in un mondo in evoluzione che non li accettava più. C'era una volta il West con Henry Fonda (uno dei suoi attori preferiti) fu però una delusione per il pubblico italiano che non ritrovò quel dinamismo, quello stile asciutto, quel sarcasmo che aveva caratterizzato la precedente trilogia. Tutto l'esatto opposto di come il pubblico internazionale accolse il film, riconoscendone il culto e quel capolavoro che ancora brilla nella Storia del Cinema.

Giù la testa
Leone pensava così di aver concluso con il genere western, ma gli rimaneva ancora una storia, fra pistoleri e scorribande, da narrare. Non intenzionato a dirigerla, chiese a Peter Bogdanovich di farlo al posto suo, peccato che però i due non andassero per nulla d'accordo, così la regia tornò nelle mani di Leone. Giù la testa (1971) con Rod Steiger rappresenta un nuovo gioiello nella cinematografia scarnita di Leone che vinse il suo primo David di Donatello per la migliore regia. Ma mentre il cinema si inchinava, la televisione e i palinsesti televisivi, troppo abbottonati e puritani, lo eliminarono per venti anni dai palinsesti televisivi.

Il secondo capolavoro: C'era una volta in America
Sembrava essere giunto il tempo di raccogliere i frutti di tanto duro lavoro. Leone è invitato a essere un membro della giuria del Festival di Cannes nel 1971 e un membro della giuria del Festival di Berlino nel 1978. Nel 1973, si concede di tornare aiuto regista, pur di lavorare ancora accanto a Henry Fonda in Il mio nome è Nessuno (1973) di Tonino Valerii. L'America gli chiede di dirigere Il padrino (1972), sapendolo interessato a un progetto sulla mafia, ma Leone rinuncia per firmare il suo nuovo e ultimo capolavoro: C'era una volta in America (1984) con Robert De Niro, pellicola che gli portò le candidature come miglior regista ai BAFTA e ai Golden Globe, ma che gli fece ottenere 5 Nastri d'Argento, fra i quali uno nella stessa categoria e un altro come miglior film. Le riprese del film iniziarono a Roma il 14 giugno 1982 e la lavorazione del film si prolungò per un anno: dieci settimane in Italia e venti all'estero. Leggenda vuole che De Niro avesse fatto coniare una serie di medagliette per tutta la troupe con su scritto: "Complimenti, siete sopravvissuti alla lavorazione di C'era una volta in America. Mentre un'altra leggenda, vorrebbe che il primo giorno delle riprese Sergio Leone avesse detto a Mario Cotone, organizzatore generale del film: «Aoh', cominciamolo bene 'sto film! A' Mario, guarda io non le faccio le passeggiate: io quando faccio un film, faccio un film co' a 'effe' maiuscola: qui se devono rompe 'er culo tutti!». E se lo ruppero davvero! Intanto Clint Eastwood litigò amaramente con Leone perché non venne scelto nel ruolo di protagonista, ma ci furono molti altri screzi fra Leone e i suoi collaboratori. Nonostante questo C'era una volta in America si rivelò un'opera fondamentale nella Storia del cinema, tracciando quelle che sarebbero poi diventate nelle mani di Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Oliver Stone e Quentin Tarantino una nuova identità postmoderna del cinema.

Gli ultimi anni
La sua ultima sceneggiatura è invece firmata per un esordiente Carlo Verdone: Troppo forte (1986), con Mario Brega, Sal Da Vinci, Michele Mirabella e Alberto Sordi. Ed è proprio con Verdone che si instaurerà l'ultimo legame speciale, come amico e come produttore delle sue pellicole, anche se Leone finanziò anche Il gatto (1977) di Luigi Comencini con Ugo Tognazzi. Vincitore del René Clair Award e della Nocciola d'Oro al Giffoni Film Festival, Leone si ritira nella sua casa di Roma, snocciolando nuove storie da portare sul grande schermo. Consapevole del suo fascino di "vecchio saggio", amava accogliere chiunque lo venisse a trovare indossando comode pantofole, occhialoni con la catenina al collo e ampi caffettani rigati o vestaglie enormi.

La morte e i progetti incompleti
Poi nel 1989, un infarto lo porta via al cinema, colpendolo proprio nella sua villa e lasciando inconcluse sceneggiature come Un posto che solo Mary conosce che sarebbe dovuto diventare un film con Mickey Rourke e Richard Gere, il remake del capolavoro Via col vento (1939) e un film epico sull'Assedio di Leningrado durante la Seconda Guerra Mondiale. Alla sua morte il cinema intero e chi da lui imparò gli rese un forte omaggio: Clint Eastwood prima degli altri, poi Quentin Tarantino, Stanley Kubrick e Robert Zemeckis. Si spegne così quello straordinario narratore di dimensioni epiche ammirato in tutto il mondo, ma purtroppo troppo a lungo denigrato in patria. L'uomo che trasformò Eastwood in una star, l'uomo che per guardare all'estremo Occidente si rifaceva all'estremo Oriente. Il costruttore di una mitologia di immagini, vittima per anni, di una politica di autorship troppo antica e di una critica forse troppo contenutistica. Eppure, ha fatto così tanto per l'Italia, riuscendo ad amalgamare le lezioni di cinema muto insegnategli da suo padre che riguardavano l'essenzialità dei gesti e il significato dei silenzi, le nuove metafore neorealiste sui dettagli e sulle facce, ma soprattutto la sapiente tecnica hollywoodiana appresa dagli americani.

Ultimi film

Western, (Italia - 1971), 150 min.
Avventura, (Italia - 1962), 154 min.
Storico, (Italia - 1961), 127 min.
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